Lidia Viktorovna si svegliò nel silenzio della prima mattina, avvolta da un’inspiegabile sensazione di angoscia — sorda come ogni anno, da quando la primavera si risvegliava dal torpore invernale. Quella sensazione l’accompagnava da ventitré primavere. Giungeva insieme ai primi raggi di luce, come un avvertimento che quel giorno fosse tornato — proprio quello che, tanti anni prima, aveva stravolto la sua vita per sempre.
Era una donna alta e slanciata, i capelli scuri ormai ravvivati da riflessi argentei. Ogni mattina si svegliava con un pensiero che non la abbandonava nemmeno per un istante: «Un altro giorno senza di loro». Lidia si alzò lentamente, come se il peso dei ricordi le schiacciasse le spalle. A piedi nudi toccò il pavimento fresco, poi si diresse verso il balcone per osservare la città che, anch’essa, iniziava un nuovo giorno.
Fuori, il sole di aprile scintillava sui tetti, gli alberi cominciavano a rivestirsi di tenera verdeggianza e l’aria era pervasa dal lieve profumo dei meli in fiore. La città pareva viva e splendida, ma per Lidia era solo un quadro bello ma vuoto: la sua anima rimaneva chiusa nel dolore del passato.
Dopo essersi preparata un caffè forte, uscì in balcone avvolta nel suo accappatoio. Il calore della tazza nelle mani non riusciva a scaldare la solitudine gelida dentro di lei. La primavera era nel pieno del suo splendore, ma per Lidia simboleggiava sempre la sofferenza. Perché proprio in primavera, il 23 aprile, era accaduto l’evento che le aveva distrutto il mondo.
— Di nuovo quella data… — sussurrò, fissando l’orizzonte mentre il sole saliva lento.
Le tornarono in mente i volti di chi aveva amato più della propria vita: Grigorij — marito devoto e premuroso — e il piccolo Fedja, un angelo di due anni, con i riccioli biondi e gli occhi colmi di fiducia. Ricordava il mattino in cui erano usciti: Grigorij era andato a fare la spesa, portandosi dietro il figlio. Una semplice gita familiare si era trasformata in tragedia. All’incrocio, la loro auto si scontrò con un’altra guidata da un ubriaco. L’urto fu talmente violento da ridurre in pezzi la carrozzeria.
Grigorij fu trovato subito: era morto sul colpo. Ma Fedja… di Fedja non si trovò traccia. Le telecamere confermarono che il bambino era in macchina, ma dopo l’incidente sparì nel nulla. Nessun cadavere, nessuna traccia: solo un’infinita, straziante incertezza che torturava Lidia da allora.
Ventitré anni. Migliaia di avvisi, centinaia di colloqui con la polizia, innumerevoli notti in lacrime. Non riusciva ad accettare che il figlio fosse vivo—o che fosse morto senza un sepolcro, senza un addio. Una tortura eterna: speranza e angoscia, insieme.
Non c’era altra via d’uscita se non il lavoro. Per natura Lidia era una workaholic: organizzata, responsabile, capace di controllare le emozioni nelle situazioni più difficili. Dopo la tragedia, il lavoro era diventato il suo unico ancora di salvezza. Di giorno visitava i pazienti come medico condotto; di notte saliva sull’ambulanza, aiutando gli altri mentre lei stessa non trovava pace.
I colleghi ammiravano il suo professionalismo, ma la guardavano con compassione. Soprattutto il primario, Il’ja Davidovič, uomo dal tono gentile e dallo sguardo comprensivo. Spesso tentava di dissuaderla dal ritmo estenuante.
— Lidia Viktorovna — le disse una volta, al termine di un turno notturno — non puoi continuare così. Lavori per tre, quasi non dormi e ti nutri alla veloce. E se mai Fedja riapparisse?
Non finì la frase, ma Lidia capì. Quei pochi frammenti colpirono qualcosa di profondo. Capì che non poteva arrendersi. Non per dovere verso gli altri, ma per sé stessa: doveva essere pronta ad accogliere il figlio, se mai fosse tornato.
Il fine settimana andava al cimitero, sulla tomba di Grigorij. Si sedeva sulla panchina accanto al monumento e parlava con lui, come fosse ancora vivo. Raccontava del lavoro, delle paure, di quanto gli mancasse.
— Grisha, sono così stanca di cercare — sussurrava, guardando la fotografia incastonata nel marmo — ma non posso smettere. E se lui fosse qui, ad aspettarmi?
Quella primavera, però, qualcosa cambiò. Per la prima volta dopo tanti anni, Grigorij cominciò a comparirle nei sogni. Era sempre lo stesso uomo silenzioso, ma inquieto. Si trovavano nell’appartamento di un tempo, quello prima della tragedia. Con quegli occhi muti, la fissava, come volesse dirle qualcosa.
I sogni si ripeterono per diverse notti. Sempre identici: silenzio, ansia, tensione. Nell’ultimo, però, Grigorij parlò:
— Lida, sbrigati! Il tempo sta per scadere.
— Cosa intendi? — chiese lei, stringendogli la mano nel sogno.
— Lo capirai. Non perdere l’attimo.
Al risveglio Lidia rimase a lungo immobile, il cuore che batteva come impazzito. L’odore di quella stanza: il suo profumo, mescolato all’aroma dei libri antichi e della pelle, rimase con lei ancora per qualche minuto.
Il giorno seguente ricevette una notizia inaspettata. Il caposervizio — rigoroso ma giusto, Gennadij Nikolaevič — le comunicò che il suo fidato collega, Michail Petrovič, si era rotto una gamba e sarebbe stato assente per settimane.
— Dovrai lavorare con Oleg Naumovič — aggiunse, osservandola con attenzione.
Il cuore di Lidia mancò un battito. Oleg… era parte del suo passato. Ex maggiore di polizia, uomo imponente sui cinquantadue anni, con occhi grigio-perla e sguardo deciso. Cinque anni dopo la tragedia erano stati vicini: Lidia aveva creduto che la sofferenza stesse diminuendo e che fosse pronta per un nuovo amore. Ma il senso di colpa per Grigorij e Fedja aveva avuto la meglio. Aveva interrotto tutto bruscamente, dicendo di non essere pronta. Oleg lo aveva accettato in silenzio, ma la ferita nel suo sguardo era rimasta.
— Non c’è nessun altro? — chiese lei, cercando di mantenere la calma.
— No, Lidia Viktorovna. Oleg è un operatore esperto. E la vita privata non deve interferire con il lavoro.
Il loro incontro fu formale. Lui salutò brevemente; lei rispose a monosillabi. Entrambi sapevano che avrebbero dovuto collaborare, nonostante il passato.
Il primo intervento fu d’emergenza. Il centralino segnalò un ristorante, «Albatros», dove un invitato alla festa di nozze era svenuto, probabilmente a causa di uno shock anafilattico. Oleg guidava con sicurezza tra il traffico, mentre Lidia controllava l’attrezzatura, preparandosi mentalmente. Nonostante le emozioni, la professionalità prevaleva.
— Secondo te cos’è successo? — domandò lui, senza distogliere lo sguardo dalla strada.
— Sospetto un’allergia — rispose lei — sui banchetti di nozze si sperimentano spesso cibi esotici.
Arrivati al locale, trovarono il panico: sul pavimento giaceva un giovane di circa venticinque anni, circondato da invitati concitati. La sposa, Ilona, singhiozzava accanto a lui, il vestito immacolato macchiato di lacrime.
— Spostatevi tutti! — ordinò Lidia, chinandosi accanto al ragazzo.
L’esame confermò il sospetto: pelle pallida, respiro superficiale, polso debole.
— Zoya — chiamò Lidia all’istruttrice infermiera — prepara adrenalina, prednisolone e soluzione fisiologica. Oleg, servono flebo.
Ognuno svolse il proprio compito a meraviglia. Lidia somministrò i farmaci, Oleg allestì il kit, Zoya porgeva gli strumenti. Lentamente il giovane riprese colore.
— Bisogna slacciare la camicia e verificare altre reazioni — disse Lidia, aprendogli i bottoni.
Fu allora che vide… una singolare voglia sulla spalla sinistra, a forma di mano. Uguale a quella che aveva Grigorij. E anche Fedja.
Il cuore di Lidia si fermò. Davanti al suo sguardo comparve il volto del giovane — e a un esame più attento, le somigliava in modo straordinario a Grigorij da giovane.
— Fedja… — mormorò, senza accorgersi di averlo detto ad alta voce.
— Come? — chiese una donna in jeans, vicina alla sposa, impaurita.
— Niente — rispose Lidia, cercando di mantenere la compostezza.
Ma la donna l’aveva sentita, e nei suoi occhi balenò qualcosa: paura o forse riconoscimento.
Il giovane, chiamato Artyom, fu trasportato d’urgenza in ospedale. Durante il tragitto Lidia non riuscì a distogliere lo sguardo da lui. Ogni tratto del suo volto gridava che fosse suo figlio. Ma come era possibile? Avrebbe dovuto avere proprio quell’età.
Nel ritorno Lidia tacque, nonostante i tentativi di Oleg di avviare un discorso. Solo un cenno o un sospiro a monosillabi. I pensieri volteggiavano nella sua mente come foglie in primavera.
«È lui… È mio Fedja… Ma dove è stato in tutti questi anni?»
All’improvviso un’ipertensione acuta la colpì: pressione alle stelle, vertigini, visione offuscata. Oleg fermò l’ambulanza di scatto, riuscì appena a trattenerla mentre sveniva.
Nella confusione del sonno, rivide Grigorij nella loro vecchia casa, avvolto dall’odore di giocattoli e caffè. Lo vide tenere in braccio il piccolo Fedja — come lei lo ricordava, con i riccioli e quel sorriso argentato.
— Ce la farai, Lida — le disse lui, accarezzandole il bambino in sogno — Fedja è tuo figlio. Lo hai riconosciuto. Anche se il mondo l’ha nascosto, l’hai trovato. Per amore di madre.
— Ma come è possibile? — chiedeva lei — Perché non l’ho trovato prima?
— Non importa — rispondeva Grigorij — Conta solo che vi siete ritrovati. E non dimenticare Oleg: ti è sempre stato accanto. Anche lui fa parte di questa storia, del tuo futuro.
Lidia si risvegliò nel letto d’ospedale, accecata dalla luce. Seduto su una poltrona, c’era Oleg: volto stanco ma occhi pieni di speranza.
— Come ti senti? — chiese, prendendole la mano.
— Meglio — rispose lei, sentendo il calore della sua presa ridarle forza — Oleg, devo scoprire la verità su quel giovane. Su Artyom.
— Ho già indagato — disse lui — Artyom Pavlovič Morozov, venticinque anni, ingegnere. Cresciuto in una famiglia adottiva. Genitori biologici sconosciuti.
Il cuore di Lidia accelerò.
— Famiglia adottiva? — chiese, la voce rotta.
— Sì — rispose Oleg — Kira e Pavel Morozov, entrambi medici, lo hanno preso da un orfanotrofio a tre anni.
Il giorno dopo nella stanza entrarono visitatori. Lidia riconobbe subito Ilona, ora in abiti civili, con gli occhi ancora arrossati. Accanto a lei, Artyom pallido ma in piedi. Alle loro spalle, una coppia più anziana: i genitori adottivi.
— Scusi il disturbo — disse la donna, presentandosi come Kira Morozova — volevamo ringraziarla per aver salvato nostro figlio. E… parlare con lei.
Lidia si alzò sul letto, il cuore martellante.
— Ieri lo ha chiamato Fedja — proseguì Kira — quel nome… ha un significato per lei?
— Fedja è il nome di mio figlio — rispose Lidia, con voce ferma — è scomparso ventitré anni fa, aveva due anni.
Artyom la fissava, negli occhi un’emozione profonda: come se un lontano ricordo stesse riaffiorando.
— Voglio sapere di lui — disse, e Lidia iniziò a narrare ogni dettaglio: la tragedia, la ricerca infinita, le notti in lacrime, il segno sulla spalla. E come quel segno l’avesse convinta che fosse destino.
Kira e Pavel ascoltavano in silenzio, mentre Artyom sembrava destarsi, riconoscendo qualcosa di antico.
— Ricordo — disse improvviso, con voce rotta — a malapena, ma ricordo. Una donna dagli occhi gentili che mi cantava la ninna nanna. Un uomo che mi lanciava in aria.
Le lacrime di Lidia sgorgarono incontrollate. Artyom si avvicinò e la abbracciò, un abbraccio lungo, colmo del peso di tutti quegli anni.
— Mamma — sussurrò, e quella parola suonò come una preghiera.
Kira spiegò come, dopo l’incidente, lo avessero trovato privo di sensi ai margini della strada, con un trauma cranico. Senza documenti, la memoria compromessa. I medici lo avevano curato, ma i genitori non erano mai stati rintracciati. L’orfanotrofio, desideroso di dargli una famiglia, aveva falsificato i documenti cambiando nome e data di nascita.
— Gli avete dato tanto amore — disse Lidia, prendendo la mano di Kira — vi sarò sempre riconoscente.
Ilona si fece avanti, commossa:
— Quindi lei è mia suocera? — chiese, tra lacrime e sorriso.
— Se non ti dispiace — rispose Lidia, abbracciandola.
Le dimissioni divennero una festa improvvisata. I genitori di Ilona, Emma e Arkadij, vollero celebrare proprio in quel ristorante «Albatros» dove tutto era cominciato.
— Soltanto stavolta niente piatti esotici — scherzò Arkadij, abbracciando il genero.
— E niente salse alcoliche — aggiunse Emma, ridendo.
Mentre Lidia si preparava ad andarsene, Oleg la fermò:
— Lida, devo dirti qualcosa di importante.
Tutti tacquero, consapevoli che stava per accadere un altro grande momento.
— Ho aspettato questa conversazione per vent’anni — disse Oleg, prendendole le mani — sapevo che non eri pronta, avevi bisogno di tempo. Ma ora che hai ritrovato tuo figlio, che la tua famiglia è di nuovo unita… Lida, vuoi sposarmi?
Lidia lo guardò, poi rivolse lo sguardo a Fedja, a Ilona, a tutte le persone che improvvisamente erano diventate la sua famiglia. Vide volti colmi di amore, di gioia, di accoglienza.
— Kira, Pavel — disse rivolta ai genitori adottivi di Fedja — cosa ne pensate? Anche voi siete suoi genitori.
— Pensiamo che la felicità debba essere completa — rispose Pavel — e che nostro figlio meriti una famiglia grande e unita.
— E io dico che bisogna organizzare un altro matrimonio — intervenne Emma ridendo — ma questa volta sarà il vostro!
Fedja si avvicinò a sua madre e a Oleg:
— Anch’io lo ricordo — disse a bassa voce — ricordo che veniva da noi con i giocattoli.
Oleg annuì:
— Ti ho amato come un figlio. E ti amo ancora.
Lidia sentì cadere la pesante eredità di ventitré anni. La primavera non era più tempo di dolore, ma di rinascita.
— Sì — disse, guardando Oleg negli occhi — ti sposo.
Il ristorante esplose in un fragoroso applauso. Ilona pianse di gioia, Fedja abbracciò la madre e il futuro patrigno, Kira e Pavel sorridevano tra le lacrime.
— Sapete — disse Lidia, quando tutto si placò un poco — ho vissuto pensando che la primavera fosse tempo di perdite. E invece è tempo di ritrovi.
— È il momento in cui tutto ricomincia — aggiunse Oleg, baciandole la mano.
— È il momento in cui la famiglia si riunisce — concluse Fedja, abbracciando tutti.
Per la prima volta in ventitré anni Lidia si sentì davvero felice. I fantasmi della primavera trovarono finalmente pace, lasciando spazio a una vita nuova, piena di amore, speranza e armonia.
Fuori dal ristorante i meli fiorivano ancora, ma il loro profumo non portava più dolore. Era giubilo — il profumo di una nuova primavera, di una nuova famiglia, di un amore rinnovato.