Fermatasi davanti al cancello di casa, Varvara Afanasjevna faticava a mantenersi in piedi. Ogni passo lungo quel sentiero sembrava un’impresa — perché non stava semplicemente tornando a casa, ma verso il suo sogno, verso la luce, verso il calore, verso suo figlio. Le sue dita, raggrinzite dal tempo e dai faticosi giorni, stringevano lentamente il recinto come per assorbirne l’essenza stessa — un’essenza familiare, dolorosamente nota. Esausta, provata, con il cuore stretto dalla speranza, vide improvvisamente ciò per cui aveva pregato per tutti quegli anni: un sottilissimo filo di fumo tremolante che saliva dal camino come promessa di vita, e una calda luce dorata che brillava dalle finestre della sua casa natale. Le lacrime le annegarono subito gli occhi. «Mi sta aspettando —» sussurrò fra sé — «mi ha aspettata. Non mi ha dimenticata». Quanto aveva sognato quel momento! Cinque anni — un’intera vita — aveva trascorso dietro le sbarre, pagando per un crimine che non aveva commesso, pur di salvare il figlio. Ed eccola qui. Libera. A casa. Proprio sul limite del suo sogno.
Con fatica posò un piede davanti all’altro e varcò la soglia del cortile. Il cuore le batteva più forte, ad ogni passo la avvicinava al tanto desiderato portico. Ma lo sguardo si fermò all’improvviso sui cambiamenti: le assi del portico erano state rinnovate — tavole nuove, pittura fresca, ringhiere in ordine. Il capanno, un tempo cadente, ora stava solido, con un tetto nuovo. «Bravo, Vituška —» pensò carezzando idealmente il figlio — «sei diventato uomo, ce l’hai fatta. La casa è in perfetto stato, proprio come sognavo». Nella sua mente già si svolgeva l’incontro caloroso: abbracci, lacrime, dichiarazioni d’amore. Sentiva già come avrebbe stretto il suo bambino al petto, sussurrando: «Sono tornata, figlio mio, non me ne andrò più».
Eppure, varcando la soglia, dentro di lei tutto si fermò. La porta si aprì — e davanti a lei comparve un uomo sconosciuto, dalla spalla coperta da un asciugamano, in pantofole domestiche, come se fosse casa sua, la sua vita, il suo spazio. L’uomo trasalì alla vista di quella figura anziana, avvolta in una logora tuta carceraria, con gli occhi colmi di lacrime e speranza.
— Chi cerca, nonna? — le chiese aggrottando la fronte.
— E Vitya dov’è? — mormorò lei, la voce tremante come una foglia d’autunno.
L’uomo la squadrò con uno sguardo lungo e valutativo. Sì, il suo aspetto non incuteva fiducia: abiti logori, volto stanco, mani segnate da rughe e cicatrici del tempo. Rimase in silenzio, poi disse:
— Vitya? Quel posto l’ha venduto a me tre anni fa. Se n’è andato. E non è più tornato.
Quelle parole si conficcarono nel cuore di Varvara come un coltello. I suoi occhi si spalancarono increduli. Venduto? La casa? La sua casa? La casa in cui aveva partorito il figlio, lo aveva nutrito da una cucchiaino, cullato di notte? Venduta mentre la madre scontava la pena per salvargli l’onore?
Un lampo di dolore le attraversò la mente — cinque anni prima era successo qualcosa di simile. Un amico di Vitya lo aveva coinvolto in un losco affare, lui si era tirato indietro, e lei, sua madre, senza esitare, aveva scelto la prigione al suo posto. «Che io stia un po’ in galera, purché lui resti pulito», si diceva allora. E adesso lui aveva venduto la casa. Venduto senza attendere il suo ritorno. Venduto senza avvertirla. Venduto come se lei non fosse mai esistita.
Sconvolta, uscì in cortile, poi sulla strada, poi fino alla fermata dell’autobus. Si sedette su una panchina, abbracciò le ginocchia con mani tremanti e scoppiò in lacrime. Le lacrime le rigavano le rugose guance come pioggia sul vetro. Il cielo si rannuvolava mentre il vento accoglieva i suoi lamenti:
— Vitya, Vitya… Dove sei? Dove cercarti, caro? Sei vivo? Mi senti? Lo sento nel cuore — sei nei guai. Hai venduto la casa… Allora sei scappato di nuovo. Stai nascondendoti. E io sono venuta — e non ho più un posto dove andare…
I suoi pensieri angosciati si addensavano sopra di lei come nubi nere. Ma all’improvviso il rombo di un motore, fari che squarciavano il crepuscolo. Un grosso SUV si fermò alla fermata. Scese l’uomo che ora era padrone della sua casa, e si avvicinò porgendole un foglio di carta.
— Signora, la porto fino al centro del distretto? Ho scoperto qualcosa. Ho trovato l’indirizzo del suo Vitya.
Lei afferrò il foglio con dita tremanti, come se fosse il biglietto per una nuova vita. Gli occhi si accesero. Una speranza fragile come ghiaccio primaverile era rinata.
— No, grazie, — sussurrò — prenderò l’autobus. Devo farcela da sola. Devo vederlo con i miei occhi.
Pochi minuti dopo, coperto di polvere, arrivò l’autobus. Varvara Afanasjevna salì fino all’ultimo sedile, strinse al petto il foglio con l’indirizzo come fosse un talismano. Il viaggio parve infinito, ma il cuore batteva sempre più forte. Ecco la città. Ecco il palazzo a più piani. Ecco la porta rivestita in similpelle, come se volesse nascondere che, dietro di essa, non c’era calore ma vuoto.
Bussò. Il cuore le martellava nel petto. E la porta si aprì. Davanti a lei stava Vitya. Leggermente brillo, in maglietta stropicciata e con una bottiglia di birra in mano. La guardò come un fantasma. E poi — niente abbracci, niente «Mamma, sei tornata!». Solo uno sguardo gelido, una spinta verso il vano scala e una voce brusca:
— Scusa, non posso accoglierti. Qui vive una donna. Non ti accetterebbe… Criminale. Io per ora sono senza lavoro. E non ho da mangiare.
E la porta si chiuse con uno schiocco. Per sempre.
Varvara non pianse. Le sue lacrime erano già secche in carcere. Scese piano le scale, il capo chino. Sì, aveva ragione la sua amica d’infanzia Natal’ja: «L’hai rovinato, Varia — hai cresciuto un bastardo». Ecco la prova. La casa venduta. Il figlio estraneo. Il sangue non significa affetto. Restare per strada? O bussare da Natal’ja?
Si avviò. Ma anche lì non c’era casa. La sepolsero sei mesi prima. Ora nessuno aspettava Varvara Afanasjevna.
Rimase sola, in strada. Il cielo si squarciò, cominciò una pioggerellina gelida. Il vento le trafisse le ossa. Rimase sotto un piccolo tetto, tremando come una foglia di pioppo. All’improvviso si fermò un’auto. Un ragazzo giovane sbucò dal finestrino:
— Che ci fai qui, signora? Non hai dove andare? Sali, ti accompagno.
Esitò. Fidarsi o restare ancora sola con il freddo? Ma non c’era davvero altro da fare. Con mani tremanti, aprì la portiera.
In macchina restò in silenzio. Solo un filo di voce: «Grazie». Poi, lungo il tragitto, cominciò a raccontare di sé a Aleksej — ma non tutto. Tacque di aver già trovato il figlio, di essere stata respinta, di provare un dolore lacerante. Aleksej guidava stringendo il volante, gli occhi pieni di comprensione. Lui, cresciuto in orfanotrofio, sapeva cosa fosse la solitudine.
— Vieni a casa mia, — disse semplicemente. — È grande, è calda.
E lei accettò. Il giorno dopo lavò l’appartamento finché non brillò, come a purificare anche l’anima. Preparò torte — di patate, di cavolo, di mele. Lavò tutto a fondo — camicie, lenzuola, persino le tende. Aleksej osservava quel prodigio di cura come fosse un miracolo: tanto calore, tanto affetto non li aveva mai conosciuti.
Da allora Varvara non fu solo un’ospite, ma divenne davvero madre per lui. In inverno gli portava da mangiare alla segheria, avvolgendo la zuppa in stracci per tenerla calda. Lui lavorava al freddo, sotto la neve, e ogni volta lei arrivava come un angelo con il suo piatto fumante e diceva: «Mangia, figlio, riscaldati». Lui, uomo duro temprato dalla vita, sentiva qualcosa sciogliersi dentro.
Un giorno in ufficio arrivò uno sconosciuto. Varvara, che stava nella stanza accanto, si alzò di scatto, lo affrontò senza timore e lo cacciò via.
— Chi era? — chiese Aleksej.
— Il caposquadra, — rispose l’uomo scocciato. — Il tuo capo.
— Il caposquadra? — sbuffò Varvara. — Un ladro, si vedeva lontano un miglio!
Aleksej rise, ma ci pensò su. Un mese dopo si scoprì che la vecchia aveva ragione: quel “caposquadra” rubava legname e lo rivendeva di nascosto. Fu licenziato. E Varvara… Varvara ricevette una proposta inaspettata.
— Mamma, — disse un giorno Aleksej guardandola negli occhi — siediti in ufficio personale. Sarai tu a decidere chi assumere. Mi fido di te: sai leggere le persone.
E lei accettò. In un mese «filtrò» dieci candidati: chi lavorava, lavorava; chi lavorava di meno o rubava, veniva scartato.
Un giorno in ufficio entrò un uomo spavaldo, sicuro di sé, convinto già di avere il posto. Varvara lo riconobbe subito. Era Vitya. Suo figlio. Sangue del suo sangue. E traditore.
Non urlò. Non pianse. Si sedette, prese un foglio e scrisse poche parole, poi lo passò ad Aleksej. Poi uscì, senza dire nulla. Con orgoglio.
Vitya, ignaro, chiese:
— E allora, capo? Mi prendete?
Aleksej guardò il foglio, lo spiegò sotto il naso di Vitya e disse:
— Mi hanno detto di non prenderti. Leggi tu.
Sul foglio, a grandi lettere, c’era scritto: «QUESTO NON È UN UOMO, MA UNA FECCIA!»
Vitya impallidì. Guardò intorno attonito. Ma di sua madre non c’era più traccia. Solo la porta che si chiuse dietro di lei, a sigillare la fine di una vita e l’inizio di un’altra. Per Varvara Afanasjevna. Con un nuovo figlio. Con una nuova famiglia. Con un nuovo senso.