L’oligarca si era ormai rassegnato al destino di morire. Ma quando incontrò la chiromante, non credette alle proprie orecchie.

Roman Viktorovich Serov, un uomo dall’aspetto solido con i capelli già brizzolati alle tempie, sedeva nello stretto studio del medico, stringendo le mani così forte che le nocche erano diventate bianche. Il suo volto, di solito severo e composto, ora tradiva una stanchezza profonda, come se gli anni di lotta con il dolore avessero lasciato un’impronta indelebile. Da dieci anni lo perseguitava un dolore lancinante alla gamba — ostinato come un’ombra, che trafiggeva il corpo con ondate acute e brucianti. Non riusciva più a contare quante volte avesse ripetuto ai medici la stessa storia, come una lezione imparata a memoria — una storia che cominciava con una data tragica: la morte di Irina, sua moglie, la cui assenza aveva lasciato nella sua vita un vuoto senza fondo.

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— Vivo con questo dolore come con una maledizione, — disse con voce roca, tremante di disperazione trattenuta. — Non mi dà tregua né di giorno né di notte. Mi sveglio sentendo la gamba come stretta da metallo rovente. Le pillole non fanno più effetto. È come ingoiare aria.

Vadim Konstantinovich Lebedev, un medico di circa cinquant’anni con occhi stanchi e qualche filo d’argento nei capelli, studiava in silenzio le radiografie sparse sul tavolo ingombro. Il suo studio ricordava un archivio: pile di riviste, cartelle, pagine ingiallite ovunque. La luce della lampada da scrivania cadeva morbida sui documenti, conferendo all’ambiente un’aria di serietà d’altri tempi. Lebedev ascoltava, annuiva, ma il suo volto restava imperturbabile. Quando Roman tacque, il medico posò le radiografie e alzò le spalle.

— A dire il vero, Roman Viktorovich, non vedo alcuna patologia, — disse, aggiustandosi gli occhiali. — Nessuna anomalia. Le analisi sono perfette. Secondo la medicina, lei è in perfetta salute. Probabilmente si tratta delle conseguenze di uno stress cronico. Tensione muscolare, forse.

Roman sentì montare dentro di sé un’ondata di frustrazione. Quelle parole le aveva già sentite decine di volte. «Lei è sano». Ma come si può essere sani quando ogni passo è una tortura, quando la notte non porta pace ma solo una tregua prima di un nuovo attacco?

— Stress? — la sua voce si fece più tagliente. — Dieci anni di stress? Non è tensione, dottore. È come se qualcuno mi rosicchiasse l’osso dall’interno!

Lebedev alzò la mano, invitando alla calma, e parlò con tono dolce, quasi paterno:

— Capisco il suo dolore, ma la medicina lavora con ciò che è visibile. Se non ci sono cause fisiologiche, proviamo metodi indiretti. Massaggi, vitamine del gruppo B. È sicuro e a volte aiuta.

— Massaggi? — Roman rise amaramente, appoggiandosi allo schienale. — In questi anni ho provato di tutto: iniezioni, fisioterapia, pillole — ho ingoiato intere farmacie. Nessun sollievo. Neanche una goccia.

Il medico allargò le braccia, mantenendo un sorriso benevolo, ma nei suoi occhi non c’era certezza.

— Posso prescrivere solo ciò che vedo, — ribadì. — Provi ancora una volta. Cosa ha da perdere?

Roman uscì dallo studio con la sensazione che il suo dolore fosse stato ancora una volta liquidato come un’invenzione, un segno di debolezza. Tornò nell’appartamento vuoto, dove ogni oggetto gli ricordava Irina — il suo vaso, i suoi libri, le sue fotografie. Il silenzio lo opprimeva come un macigno. Dieci anni prima lei se n’era andata, e da allora la sua vita sembrava essersi fermata. In un impeto di malinconia afferrò il portafoglio e ordinò all’autista di portarlo al cimitero. Lungo la strada si fermò in un negozio di fiori — comprò rose bianche, le preferite di Irina. Lei diceva sempre che portavano luce.

Il cimitero lo accolse con silenzio e fruscio di foglie. Roman si inginocchiò davanti alla lapide di marmo, depose i fiori e passò le dita sull’incisione: «Irina Evgen’evna Serova». I ricordi lo travolsero con violenta chiarezza — i viaggi, le risate, le conversazioni serali davanti al camino. Le lacrime gli scesero sulle guance e non cercò di trattenerle.

— Amore mio, — sussurrò con voce tremante, — da dieci anni vivo con questo dolore. Nessun medico riesce ad aiutarmi. E te… te non ti hanno salvata. Stavano lì a guardare mentre te ne andavi, dicendo che era “inevitabile”.

Al suo fianco, all’improvviso, apparve una vecchia curva su un bastone, con occhi penetranti e un sorriso enigmatico.

— Offri qualcosa a una vecchia, ragazzo, — gracchiò. — Ti dirò la verità: sul passato, sul presente, sul futuro. Non essere avaro, riscattati dalla sventura.

Roman stava per tirare dritto, ma le sue parole successive lo fermarono:

— Ti vedo presto su una sedia a rotelle.

Il cuore gli balzò in petto. Le porse una banconota.

— Parla, — mormorò.

La vecchia gli raccontò di colpe antiche, di amori perduti, di una tomba calpestata per errore. Gli disse di chiedere perdono a quell’anima. Lui rise amaramente. Ma la curiosità vinse. Tornò indietro.

Lì incontrò una giovane donna di nome Daria. E attraverso lei, attraverso sua madre malata — Olya, la sua prima amata — Roman scoprì la verità. Daria era sua figlia.

Da quel giorno la vita di Roman cambiò. Investì tutto per curare Olya. A sorpresa dei medici, lei visse ancora cinque anni, anni colmi di calore e amore. E lui, finalmente, divenne padre.

E il dolore che lo aveva torturato per dieci anni sparì. Non era il corpo a soffrire: era l’anima. E si era guarita nel momento in cui aveva trovato il perdono e l’amore che aveva perduto.

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