Salvezza su prescrizion…

Nella sala medici aleggiava un odore vischioso, dolce-amaro, di caffè bruciato e di nervi sfiancati. L’aria era densa come gelatina, impregnata di turni notturni, di segnali d’allarme dei monitor e di una quieta disperazione. Nina Petrovna, una donna con la figura che ricordava un solido samovar e un volto su cui la severità si era installata da tempo in pianta stabile, mescolava lentamente, con un lieve tintinnio, il terzo cucchiaio di zucchero della notte nella sua enorme tazza. Le dita, abituate alla precisione di siringhe e flebo, si muovevano in automatico.

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— In dieci anni in questa chirurgia credo di aver visto tutto, — disse nel vuoto, senza guardare la giovane ausiliaria Svetlana. — Ma che il primario venga al lavoro con una bambina… No, questo è la prima volta.

Svetlana, i cui occhi non avevano ancora perso lo splendore che le aveva dato la scuola d’infermieria e il cui cuore non si era ancora corazzato di cinismo, sospirò con compassione. Il suo stesso camice le pareva estraneo: troppo bianco e troppo grande.

— E dove dovrebbe andare, Nina Petrovna? Lidia, be’… — Svetta s’interruppe, scegliendo parole delicate. — …ha fatto le valigie ed è andata via. Dicono da quel socio in affari. E Dasha resta da sola. Lev Grigorievich si divide tra la sala operatoria e la figlia.

— Si divide… — sbuffò l’infermiera capo, ma nella sua voce non c’era un’ombra di acidità. Solo una saggezza stanca, guadagnata a caro prezzo, e una comprensione amara. — Talento di Dio. Mani d’oro. Salva quelli da cui altri si tirano indietro. Ma nella vita… nella vita va così. Sono già tre settimane che sta qui con la bambina. Meno male che è quieta, come un topolino. Siede in un angolo e disegna.

Le due donne tacquero, fissando le superfici opache delle loro tazze. Pensavano alla stessa persona: il chirurgo Lev Grigorievich. Il suo nome risuonava nei corridoi dell’ospedale, circondato da leggende. Soprattutto da quando, come un cavaliere senza macchia e senza paura, si era preso carico di quel caso quasi disperato: la paziente della stanza sette.

— E la milionaria? Com’è? Sempre uguale? — sussurrò Svetlana, abbassando istintivamente la voce come se temesse di turbare il fragile equilibrio tra vita e morte.

— Uguale. Stabilmente grave. Ariadna… Un bel nome. Da regina. E lei, dicono, una donna di sangue e latte, forza e grazia. Dopo quell’aggressione… Le nostre luminari hanno allargato le braccia, ma Lev Grigorievich le si è aggrappato coi denti. L’ha tirata fuori. Strappata all’altro mondo. Ora non si stacca, la veglia come un cane alla cuccia del padrone. Spera ancora che si svegli.

Svetlana sbirciò timidamente nel lungo corridoio, deserto a quell’ora prima dell’alba. Nel piccolo angolo bambini improvvisato dalle mani gentili del personale, proprio accanto al posto infermieri, sedeva una bambina. Due trecce scure, strette, le spuntavano ai lati. Con le sopracciglia aggrottate, con una concentrazione non infantile tracciava qualcosa con pennarelli vivaci sul suo album, ignorando totalmente il trambusto dell’ospedale, lo stridio delle barelle e i gemiti ovattati.

— Dasha è un angelo in carne e ossa. Sveglissima, non dà fastidio a nessuno. Guardarla stringe il cuore in un pugno.

— E il marito di Ariadna? — cambiò tema Nina Petrovna, e la sua voce prese impercettibili note di sospetto. — Artur. Viene, siede dieci minuti con la faccia di pietra, come a una riunione noiosa, e se ne va. Più giovane di lei, dicono, di dieci anni. Non sappiamo altro. Ha qualcosa di strano. Freddo.

In quel momento la porta della sala medici si aprì con un leggero stridio e sulla soglia apparve una figura alta, un po’ curva, in un camice bianco un tempo stirato alla perfezione e ora sgualcito. Era Lev Grigorievich. Un’ombra di barba fitta copriva le sue guance scavate, ma gli occhi, infossati dall’insonnia, ardevano di un fuoco strano, penetrante.

— Nina Petrovna, Sveta, — la sua voce, di solito vellutata e sicura, era adesso roca per la stanchezza, ma vi vibrava l’acciaio. — State pronte. Mi pare che nella nostra paziente della stanza sette si sia profilato… un cambiamento. Dinamica positiva. Ho visto muovere le palpebre.

Non aspettò risposta, si voltò e uscì; i suoi passi si persero in fretta nel corridoio. Le infermiere si scambiarono uno sguardo. Nell’aria odorò di temporale. Di speranza.

L’angolo bambini, nascosto in una nicchia accogliente, era una sorta di punto d’osservazione. Di lì si vedeva quasi tutto il corridoio, mentre la nicchia passava inosservata ai più. Dasha, finito l’abito viola della principessa, passava al cavaliere, quando sulla panchina di fronte si lasciò cadere pesantemente un uomo. Lo aveva già visto. Era proprio lo zio che veniva dalla zia addormentata. Prese il telefono, e il suo bel volto levigato si deformò in una smorfia improvvisa di rabbia.

— Ma quanto ancora devo aspettare! — sibilò nella cornetta, e il suo sussurro somigliò al soffio di un serpente. — Io non pago perché quel… esculapio smidollato faccia esperimenti su di lei! Lei doveva… Insomma, fai qualcosa! Non ho intenzione di aspettare all’infinito!

Dasha trasalì e si ritrasse come da un colpo improvviso. Non capì tutte le parole, ma l’odio gelido e velenoso nella sua voce lo si avvertiva fisicamente. E sapeva benissimo che quello zio cattivo stava parlando male di suo papà. Di suo papà che non dormiva la notte per salvare la zia. Si sentì così offesa e spaventata che la gola le si strinse in un caldo, sgradevole nodo. L’uomo si alzò di scatto e, con passi rapidi e irritati, sparì dietro l’angolo.

Più tardi, quando le infermiere si allontanarono per le chiamate, Dasha, in punta di piedi e stringendo l’album al petto, si avvicinò alla porta socchiusa della stanza numero sette. Moriva dalla voglia di vedere proprio quella zia per cui lo zio cattivo aveva detto quelle cattiverie di suo papà. La donna sul letto era pallida come le lenzuola, tutta avvolta in fili e tubi, somigliante a una bambola con cui avevano giocato con crudeltà. Ma a Dasha parve solo molto stanca e profondamente addormentata. Come la mamma… quando la mamma era ancora mamma.

— Dashenka, qui non si può, tesoro, — disse piano Svetlana, sopraggiunta alle sue spalle; la prese con dolcezza per mano e la ricondusse all’angolo.

Intanto Ariadna annaspava in un buio assoluto, denso, appiccicoso. Non era un sogno, era il non-essere. Non sentiva il corpo, non capiva dove fosse. La sua coscienza era un granello perduto in un oceano infinito di tenebra. La invadeva un terrore primordiale, animale. Dov’era Artur? Dov’era il suo amato marito, il suo cavaliere, il suo sostegno che aveva giurato di proteggerla da ogni male? Perché non era accanto a lei? Perché non le teneva la mano, non la chiamava, non la aiutava a uscire da quell’incubo catramoso e soffocante?

Lo chiamava con la mente, mettendo nel grido muto tutta la sua volontà, tutta la nostalgia, tutta la disperazione. Ma in risposta solo un silenzio tombale, onnivoro. E all’improvviso, attraverso quel buio impenetrabile, come un raggio laser filtrò un suono. All’inizio indistinto, lontano, come disturbi radio da un’altra galassia. Poi distinse delle voci. Una femminile, calma e stanca. E… una bambina. Sottile, limpida, squillante come una campanella di cristallo. Una bimba. Da qualche parte lì vicino c’era una bambina. Questo pensiero semplice e chiaro diventò per lei l’unico salvagente, un faro luminosissimo in mare in tempesta. Se qui ci sono i bambini, allora questo posto non è il male assoluto. Allora questo è vita. DEVE tornare. Per quella vocina, per quel fragile segno di vivo.

Ariadna raccolse a pugno le ultime briciole di volontà, tutta la sua rabbia non spesa, tutta la bollente voglia di vivere e compì uno sforzo inimmaginabile, sovrumano: si slanciò verso quel suono lontano e gentile. Un dolore acutissimo, totalizzante, le trafisse il corpo; milioni di aghi incandescenti si conficcarono in ogni cellula. La luce, accecante e spietata, le esplose negli occhi. Li serrò, poi con sforzo immane sollevò le palpebre. Sopra di lei ondeggiavano sagome sfocate in camici bianchi. La gente si agitò, parlò più forte, in fretta. Era tornata. Un trionfo. E una tortura.

Quando la mente si rischiarò del tutto, davanti a lei sedeva proprio quel medico stanco. I suoi occhi, profondi e intelligenti, la osservavano con attenzione.

— Ariadna, mi sente? — la sua voce era bassa, calma e incredibilmente ferma. Infondeva sicurezza. — Mi chiamo Lev Grigorievich. È in ospedale. È al sicuro.

— Che… cosa è successo? — sussurrò lei, e la sua stessa voce le parve lo stridio di una porta arrugginita.

— È stata incosciente quasi tre settimane. Ha un grave trauma cranico e multiple fratture. Ricorda qualcosa?

Tre settimane. La cifra rimase sospesa nell’aria come una campana di ghisa. Cercò disperatamente di aggrapparsi a un ricordo qualsiasi, ma il suo passato era un campo bianco, sterile.

— Io… ricordo di essere scesa dall’auto. Davanti a casa. L’ingresso… e basta. Buio.

Poco dopo nella stanza entrò Artur. Ariadna lo attendeva come un viandante smarrito attende un lume di salvezza. Ma ciò che accadde la precipitò in uno shock glaciale. Non le corse incontro, non la abbracciò, non la strinse piangendo di sollievo. Si avvicinò al letto come a una vetrina e le posò una mano fredda, senza vita sulla spalla, come fossero colleghi appena conosciuti.

— Ecco, ti sei svegliata. I medici dicono che stai migliorando. — La sua voce era piana, d’affari, senza una nota di emozione.

— Artur… ho avuto tanta paura… — cominciò lei, le labbra tremanti.

— Senti, ho una chiamata importante, un minuto solo, — la interruppe già estraendo il telefono.

Uscì nel corridoio, disse qualche frase a qualcuno e rientrò.

— Rita, devo scappare, gli affari non aspettano. Qui sei sotto controllo. Passo più tardi.

E se ne andò. Semplicemente si voltò e se ne andò. Ariadna fissò la porta richiusa e dentro si irrigidì e gelò, come se le vene si fossero riempite di azoto liquido. Non c’era quando lei moriva. Non si era rallegrato del suo ritorno alla vita. Nessuna tenerezza, nessun cenno d’amore, neppure la più banale compassione umana. Solo un freddo distacco. E allora un altro pensiero la bruciò la coscienza come uno scalpello rovente. Perché giaceva lì, in quell’ospedale pubblico — pur buono — del tutto ordinario? Con le loro possibilità, con le sue relazioni, avrebbe dovuto trovarsi nella migliore clinica privata del paese, se non del mondo. Qualcosa non andava. Tutto era mostruosamente sbagliato.

E in quel momento, dal profondo del subconscio, da quella stessa tenebra in cui aveva errato, affiorò come una bolla dal fondo del mare una frase monca, detta da quella vocina infantile: «Al posto di questa signora io fingerei di essere morta per il marito, così lui mostrerebbe chi è davvero». Non sapeva dove e quando l’avesse sentita — in sogno, nel delirio, o da sveglia. Ma le parole le si conficcarono nel cervello con una chiarezza cristallina e incredibile. L’idea, folle, terribile, disperata, nacque all’istante. Prese il pulsante di chiamata dell’infermiera. Quando nella stanza entrò Lev Grigorievich, lo fissò con uno sguardo fermo, bruciato dalla decisione.

— Dottore. Ho per lei una richiesta insolita, direi folle. Ho bisogno che mi aiuti. Voglio che comunichi a mio marito… la mia morte.

— È assolutamente escluso! — Lev Grigorievich addirittura si ritrasse, come se le sue parole fossero un colpo fisico. La sua natura professionale insorse contro il sacrilegio. — Sono un medico, non un attore di una soap a buon mercato. Non posso mentire sulla morte di una paziente! È immorale, non etico e categoricamente illegale!

— La prego! — nella voce di Ariadna tintinnarono lacrime autentiche, disperate. Cercò di sollevarsi e il dolore le trafisse il corpo, ma lo ignorò. — La supplico! Devo conoscere la verità. La sento in ogni cellula del mio corpo martoriato! Mi stanno ingannando, intorno a me accade qualcosa di orribile, e questo è l’unico modo per scoprire cosa! Mi aiuti, la prego! Lei mi ha salvato la vita, non permetta ora che diventi un inferno!

Lo guardava con una supplica così senza fondo, con una speranza così nuda, che lui si immobilizzò suo malgrado. Nei suoi occhi, ardenti di febbre, vide quel dolore, quello stesso smarrimento e quella stessa frattura che si erano installati nella sua anima qualche settimana prima, quando era tornato a casa e aveva trovato solo armadi vuoti e un biglietto breve, micidiale, di Lidia. Tradimento. Dolore causato da mani altrui. Conosceva quel sapore, quell’odore. Era amaro e caustico. Espirò pesantemente, quasi con un gemito, e annuì, sentendo crollare uno dei suoi principi professionali più sacri.

— Va bene. — La parola gli costò uno sforzo enorme. — Ma una sola volta. Uno spettacolo a replica unica. E non voglio sapere dettagli dei vostri drammi familiari. Lo farò solo perché credo nel suo istinto di sopravvissuta.

Quando Artur si presentò di nuovo in ospedale, nell’atrio lo incontrò Lev Grigorievich. Il volto del medico era una maschera imperscrutabile di cordoglio. Si avvicinò.

— Mi… dispiace molto, — disse piano, soffocato, evitando di guardare Artur negli occhi. — Abbiamo fatto tutto il possibile. Il cuore… si è fermato all’improvviso, circa un’ora fa. Complicazioni post-trauma. Era imprevedibile. Le mie condoglianze.

Si voltò e s’allontanò a passi rapidi verso la sala medici, sentendosi l’ultimo dei farabutti e un traditore del suo giuramento. Le mani gli tremavano. Ariadna, intanto, fu coperta con il lenzuolo fino alla testa, trasformata in una statua immobile e senza volto.

Artur rimase immobile per un secondo. Non gli si mosse un muscolo sul viso impeccabile. Poi entrò con lentezza quasi distratta nella stanza. Si avvicinò al letto. Scrutò i contorni sotto il lenzuolo. Poi, con una strana cautela schifata, col mignolo sollevato, punzecchiò la spalla della figura immobile. Nessuna reazione. Silenzio. In quell’istante il suo volto si deformò in una smorfia disumana. Rovesciò la testa all’indietro e si mise a ridere, muto, ma per questo ancora più agghiacciante, scosso in tutto il corpo. Rideva come un pazzo, con un sollievo animale, come uno che si è scrollato di dosso un fardello intollerabile e odioso.

Afferrò il telefono; le dita danzavano sullo schermo.

— Coniglietta! Sì, sono io! — sussurrò nella cornetta, la voce spezzata da una gioia autentica e trionfante. — È fatta! Finita! È morta! Senti? Morta! Siamo liberi! Ora è tutto nostro! Sì, toccherà sganciare a quegli idioti per il “lavoro”, ma meno del pattuito. Razza di vipere, perché han tirato in lungo, non potevano finirla subito… Be’, non importa! Conta il risultato! Arrivo da te, amore! Aspettami!

Si voltò per andarsene e si bloccò, come contro un muro invisibile. Sulla soglia della stanza, con le braccia conserte, stava il dottor Lev Grigorievich. Il suo volto era più bianco della calce dell’ospedale. Artur, istintivamente, con la lentezza di un ubriaco, si girò verso il letto. In quell’istante il suo costosissimo telefono si frantumò sul pavimento di piastrelle con uno schianto assordante, come uno sparo.

L’“estinta” Ariadna sedeva sul letto. Il lenzuolo le era scivolato sulle ginocchia, rivelando il suo viso pallido, deformato da una fredda furia. Nella mano tremante aveva il suo stesso telefono, e sullo schermo brillava l’icona di una videoregistrazione appena conclusa.

— Tu… tu… — rantolò Artur; il suo volto divenne terreo, una maschera di spavento mortale. Gli spruzzi di saliva gli uscivano dagli angoli della bocca. — Sei una morta! Hai orchestrato tutto! Maledetta! Io ti… vi distruggerò tutti!

Con un urlo selvaggio e inarticolato, come una bestia braccata, si precipitò verso l’uscita, spinse Lev Grigorievich e, travolgendo chiunque gli capitasse davanti, si mise a correre lungo il corridoio.

— Bisogna fermarlo! Subito! — esclamò Lev, ma la sua voce fu sovrastata da quella calma e glaciale di Ariadna.

— Lasci stare. Non sprechi le forze. Ora se ne occuperanno altre persone. Il video è già volato dove doveva. Non andrà lontano.

Lev Grigorievich la fissò in silenzio. Una donna forte, volitiva, magnifica nella potenza della sua collera, appena sopravvissuta al tradimento più freddo del suo uomo più vicino. Uscì per lasciarle prendere fiato. Quando la porta si chiuse, Ariadna si appoggiò ai cuscini e, contro tutta la sua volontà d’acciaio, grosse lacrime mute e brucianti le scesero sulle guance. Non piangeva per il dolore, ma per l’enorme svuotamento, per il crollo di tutta la vita di prima, per la profondità dell’inganno in cui aveva vissuto.

In quel momento la porta si socchiuse piano, con un lieve scricchiolio, e nello spiraglio si infilò una testolina nota con due trecce spettinate.

— Le fa molto male? — chiese Dasha con una voce sottile come perline di vetro. Nei suoi grandi occhi grigi brillava una compassione autentica.

Ariadna trasalì e, in fretta, bambinescamente, si asciugò le lacrime col dorso della mano.

— No, piccola. È già passato. Va tutto bene.

La bimba fece qualche passo avanti, i piedini nudi sfioravano quasi senza rumore il pavimento freddo.

— Il mio papà dice che anche i grandi e i forti piangono, a volte. Ma solo un pochino. E poi bisogna bere per forza un tè molto dolce con biscotti al cioccolato. Così il cuore si illumina.

Ariadna sorrise suo malgrado attraverso il velo delle lacrime. Tese la mano — pallida, smagrita, con la flebo al gomito — e sfiorò leggermente una delle trecce calde e setose.

— E tu come ti chiami, piccolo miracolo?

— Dasha. E lei?

— Ariadna.

— Il mio papà mi chiama libellula, — confidò la bambina facendo un passo più vicino. — Dice che sono veloce e irrequieta, e che ho gli occhi grandi.

Ariadna rimase immobile. Le corse un brivido sulla pelle. Libellula. Era il suo stesso soprannome infantile, il più caro, che quasi nessuno conosceva. Intuì con tutte le fibre della sua anima ferita un legame incredibile, quasi mistico, con quella piccola, seria bambina arrivata nel momento più buio. Tra loro nacque e si tese all’istante un filo sottilissimo di comprensione, fragile e al tempo stesso incredibilmente forte, come l’ala di quella stessa libellula.

Chiacchierarono quasi un’ora. Dasha raccontava dei suoi disegni, dei giorni in ospedale, del papà-eroe. Ariadna ascoltava, e il gelo vuoto dentro di lei cominciava piano piano a riempirsi di una luce tiepida e quieta.

Il giorno seguente in ospedale apparvero persone in abiti ufficiali, severi. Parlarono a lungo e accuratamente con Ariadna nella sua stanza, annotando con cura le deposizioni. Il volano della giustizia, lento, impacciato, ma inesorabile, prese ad accelerare.

La sera stessa Ariadna fece chiamare il direttore sanitario — un uomo corpulento, ansimante, con viso lucido e espressione perennemente preoccupata.

— Voglio essere dimessa, — dichiarò senza preamboli, con una voce che non ammetteva repliche.

— È categoricamente escluso! — tagliò corto il primario, gonfiandosi come un tacchino. — Con le sue lesioni, Ariadna Viktorovna, deve restare sotto osservazione continua almeno per qualche settimana! Non posso assumermi una simile responsabilità!

— Allora facciamo un patto, — gli occhi di Ariadna brillarono d’acciaio. Non c’era più traccia della donna vulnerabile che aveva pianto il giorno prima. — Trasferisco sul conto della vostra struttura una somma sufficiente alla ristrutturazione completa di tutto il reparto di chirurgia, all’acquisto delle attrezzature più moderne a livello mondiale e di tre nuovi ventilatori. E voi… voi mandate ufficialmente in ferie retribuite il dottor Lev Grigorievich. Urgenti. Per motivi familiari. Sarà il mio medico personale a domicilio. E sua figlia, Dasha, ovviamente, verrà con lui. Le farà molto meglio respirare aria fresca nella casa di campagna che starsene a questi corridoi d’ospedale.

Il direttore arrossì, poi impallidì. Era un ricatto sfacciato, palese. Ma la proposta era talmente allettante che gli mancò il fiato. Si immaginò sale operatorie scintillanti di tecnologia all’avanguardia, discorsi di ringraziamento al ministero, premi, onorificenze…

— È… una proposta estremamente fuori standard, — bofonchiò, aggiustandosi gli occhiali con nervosismo. — Estremamente…

— Ma estremamente vantaggiosa per tutte le parti, — tagliò corto Ariadna. — Soprattutto per lei.

Un’ora dopo tutte le formalità erano sistemate. Lev Grigorievich, assolutamente frastornato e imbarazzato da quella svolta fantastica degli eventi, insieme a Dasha si trasferiva in auto di lusso di Ariadna nella sua enorme casa di campagna, simile a un palazzo. Dasha strillava di gioia vedendo la sua stanza personale con balcone sul giardino fiorito, e Lev Grigorievich camminava per gli androni di marmo cercando di trovare in sé il coraggio di rifiutare, sentendosi a disagio e mormorando continuamente scuse.

— Lev Grigorievich, — lo fermò infine Ariadna, posando con dolcezza ma con fermezza una mano sulla sua manica. — La prego, smetta di scusarsi. E men che meno per avere una figlia così raggiante e meravigliosa. Sa, sono sempre più convinta di essere risalita alla luce proprio grazie alla sua voce. È stata il mio angelo custode. La mia guida.

Passarono alcuni mesi. In tribunale Lev sedeva accanto ad Ariadna sulla dura panca di legno. Era venuto a sostenerla, a starle vicino. Quando il pubblico ministero cominciò a leggere, monotono e senza emozioni, il lungo, terribile elenco di lesioni inflitte dai picchiatori su preciso ordine di Artur e della sua giovane amante, Lev sentì gelarsi il sangue. Il linguaggio secco, protocollare, che enumerava fratture multiple, trauma cranico, contusioni degli organi interni ed ematomi suonava più spaventoso di qualsiasi racconto emotivo e isterico. Guardava il profilo di Ariadna, le labbra strette e bianche dalla tensione, la linea fiera e indomita del mento, e in quell’istante, con abbagliante chiarezza, capì che non avrebbe mai più potuto lasciarla. Che doveva starle accanto. Sempre. Per proteggerla. Custodirla. Amarla. Le trovò la mano fredda e tremante e la strinse forte, virilmente, nella sua. Ariadna, senza voltare la testa, ricambiò la stretta. In quel gesto semplice e muto c’era tutto: gratitudine sconfinata, fiducia profondissima e la nascita di un sentimento nuovo, vero, adulto.

Lev tornò al lavoro in un reparto completamente rinnovato, scintillante di cromo e vetro. Ma Dasha non lo seguiva più. Restava a casa con la “nuova mamma”, come ormai chiamava con orgoglio Ariadna. Lei aveva completamente riorganizzato la sua agenda, spostando in secondo piano gli affari multimilionari, per andare personalmente a prendere Dasha a scuola, portarla a danza e aiutarla con i compiti. Il suo impero economico poteva aspettare. Aveva trovato qualcosa di infinitamente più prezioso.

Una sera, mentre i tre sedevano sulla grande terrazza inondata dalla luce dorata del tramonto e bevevano tè con proprio quei biscotti al cioccolato, Lev, emozionato e impappinato, chiese ad Ariadna di sposarlo. Lei, ridendo tra le lacrime di felicità, rispose che lo aspettava da due mesi e aveva già cominciato a seccarsi. I preparativi del matrimonio li travolsero. Con sorpresa di Lev, le principali organizzatrici e ispiratrici furono Ariadna e Dasha. Insieme sceglievano con ardore i tessuti dell’abito, litigavano fino a perdere la voce sul colore delle tovaglie e dei tovaglioli, compilavano liste infinite di invitati, totalmente assorbite da quei piacevoli, frenetici preparativi.

E Lev Grigorievich, guardando le sue ragazze adorate — così diverse, così dissimili, ma così care e infinitamente sue —, capiva di aver finalmente trovato ciò che non osava nemmeno sognare. Quel porto quieto e solido dopo tutte le burrasche della vita. Tutto era andato al suo posto. Tutti erano davvero, pienamente felici. E il silenzio che ora regnava in casa loro era il silenzio della pace, della serenità e di una felicità smisurata, avvolgente.

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