Eduardo Ramírez parcheggiò l’auto di lusso, una berlina scura che brillava sotto il sole andaluso, davanti a quella che un tempo era stata una casa dignitosa alla periferia di un piccolo pueblo bianco vicino a Siviglia. Ora, dodici anni dopo, le pareti diroccate, la vernice scolorita e il tetto mezzo crollato raccontavano una storia di abbandono e miseria che non avrebbe mai immaginato di trovare. L’aria sapeva di polvere, di gesso umido e dei gelsomini trascurati che si arrampicavano sulla recinzione rotta.
Vestito con il suo abito impeccabile di taglio italiano, che probabilmente costava più di tutto l’isolato, teneva un pesante mazzuolo tra le mani tremanti. Il sudore gli imperlava la fronte, non per il caldo, ma per il miscuglio di rabbia, colpa e un’ansia che gli stringeva il petto. Cercava il coraggio per fare ciò per cui era venuto, una dimostrazione di forza che aveva provato mentalmente per tutto il viaggio da Madrid.
Fu allora che la porta, scardinata, scricchiolò aprendosi. E lei apparve.
Gabriela.
La donna che aveva amato più della sua stessa vita, la ragione del suo successo e della sua miseria. Adesso era lì, troppo magra, con abiti logori che pendevano dalla sua figura fragile. I suoi occhi, quegli occhi scuri che un tempo brillavano di passione e di risa, ora erano stanchi, segnati dalle occhiaie di chi aveva lottato da sola per troppo tempo.
Dietro di lei, affacciandosi timidamente dalla sua gonna, due bambine piccole si nascondevano spaventate. Osservavano quell’uomo estraneo con vestiti costosi, che impugnava uno strumento uscito da un incubo.
«Che ci fai qui, Eduardo?», chiese Gabriela. La sua voce non era un sussurro, ma un colpo secco, carico di una miscela di sorpresa, incredulità e una rabbia antica e profonda.
Lui non rispose subito. Le parole gli si bloccarono in gola. La visione di lei, così spezzata, così diversa dalla donna che ricordava e, tuttavia, così dolorosamente uguale, lo disarmò. Invece di parlare, alzò il mazzuolo. Il movimento fu quasi automatico, un atto di pura frustrazione indirizzata.
Cominciò a colpire la parete più danneggiata della casa, quella che minacciava di crollare sul portico.
Il tonfo del metallo contro i mattoni risuonò nel vicinato. Le colombe che nidificavano sul tetto rotto spiccarono il volo nel panico. Le bambine gridarono e si aggrapparono ancora più forte alla madre.
«Sei impazzito?! Smettila subito!», urlò lei, correndo verso di lui, cercando di proteggere quel poco che le restava.
«Sto facendo quello che avrei dovuto fare dodici anni fa», rispose Eduardo, con la voce roca, senza smettere di colpire. Ogni impatto era un colpo contro se stesso, contro il codardo che era stato. «Sto aggiustando ciò che ho rotto».
Gabriela cercò di afferrargli il braccio, ma lui era più forte. Il mazzuolo continuava ad abbattersi, demolendo pezzi di parete già quasi cadenti, mentre lei gridava che non aveva bisogno della sua carità dopo tanto tempo.
«Carità!». Eduardo si fermò di colpo. Il silenzio improvviso fu quasi violento quanto il rumore. La guardò fisso, il petto che si alzava e abbassava. «Credi che questa sia carità?».
Lasciò cadere il mazzuolo a terra con fragore. La polvere si alzò ai suoi piedi. Si asciugò il sudore dal viso con un fazzoletto di seta, sporcandolo di terra. Mise la mano nel taschino interno della giacca e tirò fuori una busta ingiallita e spessa. Le mani gli tremavano visibilmente mentre le porgeva i documenti.
«So del bambino, Gabriela. L’ho sempre saputo».
Il colore svanì dal volto di Gabriela. Impallidì come la carta, come se lui le avesse dato uno schiaffo. Le due bambine, spaventate dal silenzio improvviso della madre, chiesero a bassa voce chi fosse quell’uomo e perché la mamma stesse piangendo.
Eduardo si inginocchiò sul pavimento di terra, senza badare che i pantaloni del suo abito da migliaia di euro si sporcassero. Aprì lentamente la busta, mostrando vecchi esami medici, referti ospedalieri. Il suo nome era timbrato su ogni pagina.
«Dodici anni fa eri incinta. E io me ne andai come un codardo».
«Quelle bambine non sono tue», sussurrò Gabriela, con le lacrime che finalmente le rigavano le guance. «Hanno cinque e tre anni. Lo sai».
«So che non sono mie», rispose lui con la voce spezzata. Il dolore che aveva custodito per un decennio minacciava di soffocarlo. «Ma so anche che hai perso il nostro bambino. Da sola. In ospedale. Una settimana dopo che me ne andai».
Il silenzio che seguì fu rotto solo dal pianto sommesso di Gabriela, un pianto trattenuto che parlava di un dolore troppo profondo per essere espresso a grida. Le vicine, attirate prima dal frastuono e ora dal dramma silenzioso, cominciarono ad affacciarsi a finestre e porte, sussurrando sulla scena che si svolgeva in strada.
«Come… come l’hai saputo?», chiese Gabriela, sedendosi tra le macerie al suo fianco, la forza che la abbandonava.
«Doña Carmen. L’infermiera che si prese cura di te all’ospedale di Siviglia. È in ospedale ora, molto malata. La settimana scorsa mi ha cercato». Eduardo si asciugò gli occhi con il dorso della mano, un gesto brusco che contrastava con i suoi vestiti. «Ha detto che hai gridato il mio nome durante il parto prematuro. Che hai chiesto che qualcuno mi chiamasse, ma il tuo telefono non dava più segnale. Io avevo cambiato numero».
La maggiore, con i capelli castani e occhi curiosi e intelligenti, si avvicinò lentamente, vincendo la paura. «Mamma, perché piangi?», chiese con la sua voce dolce.
Gabriela attirò a sé le due figlie, abbracciandole come a volerle proteggere da tutto quel dolore del passato, un dolore che loro non capivano. «È complicato, tesoro. Quest’uomo… conosceva la mamma tanto tempo fa».
Eduardo osservò le due bambine. La più piccola, bionda e dagli occhi azzurri, somigliava molto a Gabriela da bambina. La maggiore aveva tratti diversi, più seri, ma gli rivolse un timido sorriso.
«Hai figli?», chiese la maggiore.
«No», rispose Eduardo, la parola uscì con più dolore del previsto. «Non ne ho mai avuti».
«Perché no?».
Lui guardò Gabriela prima di rispondere, vedendo che anche lei, nonostante tutto, aspettava la risposta. «Perché l’unica donna che volevo fosse la madre dei miei figli… l’ho ferita molto. E quando mi sono reso conto dell’errore che avevo commesso, era già troppo tardi».
Gabriela si alzò di scatto, scrollandosi la polvere dai vestiti. Il suo orgoglio tornò come uno scudo. «Non è troppo tardi per niente. Tu ti sei costruito la vita. Sei diventato ricco a Madrid, hai tutto quello che hai sempre voluto. Non devi venire qui a fingere che ti importi di ciò che mi è successo».
«Fingere!». Anche Eduardo si alzò, la sua voce si alzò per la prima volta, risuonando con la frustrazione di dodici anni. «Credi che abbia potuto dimenticare? Credi che sia passato un solo giorno senza che pensassi a te?».
«Allora, perché hai impiegato dodici anni per farti vedere?».
La domanda rimase nell’aria, pesante come l’odore di terra bagnata che cominciava a levarsi. Nuvole scure si addensavano in cielo, minacciando di scatenare il temporale che entrambi sentivano dentro.
Eduardo si sbottonò la giacca e se la tolse, lanciandola sul sedile della sua auto di lusso. Rimasto in camicia bianca, rimboccandosi le maniche, riprese il mazzuolo.
«Perché ero un idiota orgoglioso», disse, la voce più bassa ora. «Un idiota che credeva che stessi meglio senza di me».
Riprese a lavorare, questa volta con più attenzione, togliendo solo le parti davvero pericolose della parete che pendevano sull’ingresso.
«E perché quando finalmente ho trovato il coraggio di tornare… tu eri già con un altro uomo».
Gabriela rimase gelata. Le bambine si guardarono, capendo che si stava dicendo qualcosa di importante.
«Mi spiavi?».
«Spiare, no. Ma sì, sono tornato alcune volte in paese. Circa… sei anni fa. Vi ho visti al parco, al mercato. L’ho visto giocare con loro». Eduardo non smetteva di lavorare mentre parlava, il ritmo dei colpi scandiva le sue parole. «Sembravate felici. Ho pensato che fosse meglio lasciare le cose come stavano. Non avevo il diritto di rovinare tutto».
«E dov’è lui ora?», chiese Eduardo, facendo finalmente la domanda che lo tormentava, quella a cui Doña Carmen non aveva saputo rispondere.
La maggiore, che si era presentata come Valeria, rispose prima della madre. «Papà è andato via tanto tempo fa. Ha detto che andava a cercare lavoro a Barcellona, ma non è più tornato».
«Valeria! Vai a giocare dentro con Isabel», chiese Gabriela con voce stanca.
«Ma non c’è un “dentro”, mamma», disse la bambina con schiacciante logica. «Ricordi che la casa è rotta?».
Eduardo smise di lavorare. Il mazzuolo gli cadde dalle mani. Si guardò intorno e, per la prima volta, vide davvero lo stato della casa. L’interno. Non c’erano più pareti interne, solo strutture di legno marcio. Quello che restava del tetto era coperto da un telone bucato che gocciolava acqua sporca.
In quello che un tempo era il salotto, dove avevano sognato di avere una famiglia, c’era solo un vecchio materasso per terra, alcune scatole di cartone impilate e un piccolo fornello da campeggio.
«Per Dio, Gabriela… come vivete qui?».
«Come si può», rispose lei, alzando il mento con quell’orgoglio intatto che lui ricordava così bene. «Non ho mai chiesto aiuto a nessuno. Non mi sono mai umiliata».
«Questo non è umiliarsi, Gabriela. Questo è… è sopravvivere». Tirò fuori lo smartphone di ultima generazione dalla tasca e iniziò a comporre un numero.
«Che stai facendo?».
«Chiamo un amico che ha un’impresa edile qui a Siviglia. Cominciamo oggi stesso».
Gabriela corse e gli strappò il telefono dalla mano. «Non voglio la tua pietà, Eduardo! Noi stiamo bene così!».
«Bene?!», indicò il tetto bucato. «Le tue figlie dormono qui quando piove!».
«Dormono a casa di mia madre, in fondo alla strada», urlò lei, restituendogli il telefono con rabbia. «Ce la caviamo».
Lui la fissò. «E tu? Dove dormi quando piove?».
Lei non rispose, ma lui capì dalla sua esitazione. Restava lì, a proteggere le poche cose che avevano.
Le due bambine tornarono correndo, entusiaste per la prima volta. «Mamma, mamma, arriva la nonna Guadalupe!», annunciò Isabel, la più piccola.
Eduardo vide una signora dai capelli grigi scendere per la strada con passo deciso e aria di pochi amici. Veniva con una scopa in mano, come pronta a spazzarlo via, ed espressione che conosceva bene. Era identica a Gabriela quando si arrabbiava.
«Buon pomeriggio, Doña Guadalupe», salutò lui, cercando di sorridere.
«Eduardo Ramírez», rispose lei senza un filo di simpatia. «Pensavo fosse solo un pettegolezzo di vicinato. Il fantasma di Madrid è tornato».
«È vero, Doña Guadalupe. Sono tornato».
«Tornato per cosa? Per finire di distruggere quel che resta di mia figlia?». Le bambine si avvicinarono alla nonna, che le abbracciò protettivamente.
«Sono tornato per aggiustare le cose», disse Eduardo.
«Aggiustando con un mazzuolo», indicò lo strumento Guadalupe. «Tipico degli uomini. Credono che tutto si risolva con la forza bruta».
Gabriela intervenne prima che la discussione degenerasse. «Mamma, lui… ha portato dei documenti. Su… quell’argomento».
Il volto di Guadalupe cambiò immediatamente. La rabbia lasciò il posto a una tristezza antica. Sapeva esattamente di cosa parlava la figlia. «Ah. Allora l’hai saputo».
«Lo sapeva da sempre?», chiese Eduardo, sentendo un nuovo peso allo stomaco.
«Certo che lo sapevo», la voce di Guadalupe tremò. «Sono stata io a portare mia figlia in ospedale quando ha cominciato a sanguinare. Io, che le ho tenuto la mano quando i medici hanno detto che non c’era più niente da fare. E io, che l’ho accudita nelle settimane seguenti quando piangeva nel sonno e gridava il tuo nome».
Eduardo si sentì come colpito da un pugno. Si sedette su un pezzo di parete mezzo crollata, nascondendo il viso tra le mani. «Io non lo sapevo», mormorò. «Lo giuro su Dio, non lo sapevo».
«Non lo sapevi perché non hai voluto sapere», ribatté Guadalupe, implacabile. «Mia figlia ti chiamò quindici volte quella settimana. Quindici volte, Eduardo! Tu non rispondesti».
«Avevo cambiato numero, Doña Guadalupe. Avevo ottenuto quel lavoro a Madrid e…».
«E hai pensato che fosse meglio tagliare tutti i legami, vero? Ricominciare da zero. Lasciare il passato alle spalle», concluse lei.
Gabriela parlò per la prima volta dopo diversi minuti, la voce bassa e tagliente. «Ricordi cosa hai detto nel nostro ultimo litigio? Che io ero un peso. Che ti frenavo. Che non saresti mai riuscito a crescere nella vita con me accanto, in questo paese».
Le sue parole risuonarono come uno schiaffo. Eduardo ricordava perfettamente quella notte orribile, tutte le cose crudeli dette nel calore della paura per l’offerta di lavoro e la responsabilità.
«Ero giovane, Gabriela. Ero un idiota orgoglioso che…».
«Che era un codardo», completò Guadalupe. «E lo sei ancora, da quanto vedo. Ti presenti qui dopo dodici anni con i soldi e credi di poter comprare il perdono».
Valeria, che era stata zitta ad ascoltare gli adulti, si avvicinò a Eduardo, che era ancora seduto tra le macerie. «Tu sei l’uomo delle foto che la mamma nasconde».
Tutti tacquero. Gabriela arrossì per l’imbarazzo.
«Quali foto, Valeria?», chiese Guadalupe, ora confusa.
«Le foto che la mamma guarda di notte e piange. Sono in una scatolina di legno. Sotto il letto. Ci sono anche un sacco di carte, lettere vecchie».
«Valeria!», Gabriela parlò seria a sua figlia.
«È solo la verità, mamma. Piangi sempre quando le guardi».
Eduardo sentì il cuore accelerare. Dopo tutti quegli anni, dopo Alejandro, dopo la miseria… lei conservava ancora le loro foto.
«Non significa niente», disse Gabriela in fretta, nervosa. «Sono solo ricordi. Tutti hanno dei ricordi».
«Ricordi di cosa?», chiese Isabel, innocente.
Gabriela guardò Eduardo, poi sua madre, senza sapere cosa rispondere a una bambina di tre anni.
«Ricordi di quando la mamma era più giovane», disse dolcemente Eduardo, alzandosi in piedi. «E conobbe un ragazzo che non era molto furbo».
«Eri il fidanzato della mamma?», chiese diretta Valeria.
«Era più di questo», rispose Guadalupe prima che qualcuno potesse impedirglielo. «Erano sposati».
«Sposati?!», le due bambine parlarono all’unisono.
«Mamma!», protestò Gabriela.
«Che c’è? Hanno diritto di sapere chi è questa persona che è apparsa qui a demolire la nostra casa».
Eduardo si alzò e si accovacciò all’altezza delle bambine. «Tanto tempo fa, ero sposato con la vostra mamma. Ma abbiamo litigato e ho fatto cose molto sbagliate. Per questo a lei non piace molto parlarne».
«E perché avete litigato?», chiese Valeria.
«Perché io credevo di sapere tutto. E non ascoltavo quello che lei aveva da dirmi. E quando lei aveva più bisogno di me, io non ero qui».
Isabel, a tre anni, non capiva bene la conversazione, ma Valeria, più grande, sembrava elaborare. «E adesso… vi sposerete di nuovo?».
«No, tesoro», rispose Gabriela in fretta. «Le persone crescono e prendono strade diverse».
«Però vi volete ancora bene», insistette Valeria.
La domanda rimase sospesa. Nessuno rispose. Ma le lacrime negli occhi di Gabriela e il modo in cui Eduardo la guardava dissero più di qualunque parola.
La pioggia, che aveva minacciato, cominciò a cadere lentamente. Prima qualche goccia, poi più forte. In pochi minuti, diluviava, l’acqua batteva sul telone bucato del tetto e trasformava la polvere in fango.
«Andiamo a casa della nonna!», disse Gabriela, radunando le bambine.
«E lui?», chiese Valeria, indicando Eduardo.
«Lui ha la macchina, può ripararsi», rispose Gabriela, tirandole verso la strada.
Ma quando arrivarono sul marciapiede, videro che Eduardo non si era diretto alla sua auto di lusso. Si era appoggiato al muro della casa, sotto la parte di telone più rotta, inzuppandosi insieme alle macerie. L’acqua gli colava tra i capelli, incollando la camicia bianca al corpo.
«Eduardo! Prenderai una polmonite!», gridò Guadalupe dall’angolo.
«Va bene!», rispose lui. «Me lo merito».
Gabriela si fermò in mezzo alla pioggia, guardando quell’uomo che un giorno era stato tutto nella sua vita. Era lì, con il suo abito rovinato e le scarpe eleganti affondate nel fango, testardo come sempre.
«Vieni con noi», disse a bassa voce.
«Non è necessario».
«Non te lo sto chiedendo. Te lo sto ordinando. Vieni».
Salirono la strada correndo sotto la pioggia. La casa di Guadalupe era semplice, ma ordinata e calda. Profumava di caffè appena fatto e di ammorbidente. Aveva un piccolo salotto, una cucina e due camere. Le pareti erano piene di foto delle nipoti. Eduardo notò che non c’era nessuna foto di Gabriela degli ultimi dodici anni.
«Togliti quei vestiti bagnati», ordinò Guadalupe. «Vado a vedere se ho qualcosa del defunto Antonio che ti possa stare».
Tornò con una camicia a quadri e un pantalone da tuta. «Era di mio marito. Dovrebbero andarti».
Eduardo si cambiò in bagno. Gli stavano un po’ larghi, ma erano asciutti e puliti. Quando tornò, trovò Gabriela che preparava il caffè in cucina e le bambine che giocavano in salotto con bambole di pezza.
«Grazie, Doña Guadalupe».
«Non ringraziarmi ancora. Non voglio che prenda una polmonite e muoia sulla mia porta. Darebbe troppo lavoro». Nonostante tutto, Eduardo sorrise. Guadalupe aveva sempre avuto quel modo diretto di parlare.
«Gabriela mi ha parlato della tua azienda», disse Guadalupe servendo il caffè. «Dicono che ti sei davvero fatto ricco a Madrid».
«Mi è andata bene nella vita, sì».
«E com’è che un semplice muratore è diventato un imprenditore milionario?».
Eduardo guardò Gabriela, che fingeva di concentrarsi a mescolare lo zucchero nel caffè. «Ricordi quell’app che Gabriela mi suggerì di creare? Per mettere in contatto muratori e piccoli ristrutturatori con i clienti?».
Gabriela smise di mescolare e lo fissò.
«Quella che dicesti che era una sciocchezza? Che chi mai avrebbe assunto un muratore con un telefono?», disse lei.
«Proprio quella». Eduardo abbassò la testa, vergognandosi. «Tre anni dopo che ci separammo, la creai. Oggi ha più di due milioni di utenti in Spagna».
Il silenzio in cucina era pesante. Guadalupe guardava l’uno e l’altra, capendo che c’era molto di più sotto.
«L’idea è stata sua?», chiese Guadalupe.
«Completamente. Lei pensò a tutto, perfino al nome. “ConectaObra”. Io ero troppo orgoglioso per ammettere che aveva ragione».
Gabriela si alzò bruscamente dal tavolo. «Devo vedere le bambine». Uscì dalla cucina, lasciando Eduardo solo con Guadalupe, che lo osservava con occhi acuti.
«Perché sei venuto qui, Eduardo? Davvero».
«Per chiedere perdono».
«E credi di ottenerlo?».
«Non lo so. Ma devo provarci».
«Mia figlia ha sofferto molto per colpa tua. Quando vi siete lasciati, ha pianto per mesi. Quando ha perso il bambino… è entrata in una tristezza da cui ho creduto che non sarebbe mai uscita». Guadalupe sospirò. «E quando Alejandro è entrato nella sua vita, ho pensato che finalmente sarebbe stata di nuovo felice. E lo è stata… per un po’».
«Sembrava un brav’uomo», disse Eduardo a bassa voce.
«Lo era. Gentile, lavoratore. Amava le bambine come fossero figlie sue. Ma non arrivò mai a conquistare completamente il cuore di Gabriela. C’era sempre un pezzo che apparteneva a te».
Eduardo sentì un nodo al petto.
«Cosa gli è successo?».
«Ottenne una proposta di lavoro a Barcellona. Uno stipendio tre volte quello che guadagnava qui. Le chiese di andare con lui, di portare le bambine. Lei rifiutò».
«Perché?».
«Perché questo paese custodisce ricordi. Custodisce te. Lei non riuscì mai ad andarsene davvero». Guadalupe bevve un sorso di caffè. «Alejandro capì che stava lottando contro un fantasma e si arrese. Se ne andò da solo. E da allora, lei cresce le bambine da sola».
«Non da sola. Ha lei», disse Eduardo.
«Mi ha, sì. Ma senza uomo accanto e senza accettare aiuto da nessuno. Orgogliosa come suo padre. Come te».
Dal salotto si sentiva la voce di Gabriela che giocava con le figlie, facendo vocine alle bambole. Era un suono che Eduardo non udiva da dodici anni e che risvegliò una nostalgia devastante.
«Porta ancora l’anello», osservò lui, ricordando di averlo visto alla sua mano.
«Non è l’anello nuziale. È l’anello di fidanzamento d’argento che le regalasti quando avete iniziato a frequentarvi. Non se l’è mai tolto».
Eduardo chiuse gli occhi, ricordando il giorno in cui comprò quell’anello semplice a una bancarella. Avevano diciannove anni e lui aveva risparmiato tre mesi per comprarlo.
«Doña Guadalupe, posso chiederle una cosa?».
«Puoi».
«Crede che… che esista una possibilità che lei mi perdoni?».
Guadalupe lo fissò a lungo. «Ti ha già perdonato, Eduardo. Da tanto tempo. Il problema è che non ha perdonato se stessa».
«Come sarebbe?».
«Mia figlia si porta addosso la colpa di averti lasciato andare. Crede che se ti avesse detto della gravidanza prima, saresti rimasto. E pensa che sia stata colpa sua aver perso il bambino, perché era molto nervosa e triste per la tua partenza».
«Ma non è vero. Sono stato io ad andarmene!».
«Io lo so. Tu lo sai. Ma lei no. E finché non perdonerà se stessa, non potrà mai credere di meritare la felicità».
In quel momento, Valeria apparve sulla porta della cucina. «Nonna, la mamma sta piangendo».
Guadalupe ed Eduardo si alzarono insieme. Andarono in salotto e trovarono Gabriela seduta a terra, abbracciata a Isabel, che asciugava le lacrime della madre con la sua manina.
«Mamma, perché sei triste?», chiedeva Isabel.
«Non sono triste, tesoro. A volte gli adulti piangono quando ricordano cose importanti».
Eduardo si avvicinò lentamente e si sedette sul pavimento accanto a loro, con i vestiti presi in prestito che gli stavano larghi. «Gabriela. Devo dirti una cosa».
Lei lo guardò con gli occhi arrossati. «Cosa?».
«Non mi sono mai risposato. Non ho mai avuto altri figli. Non sono mai riuscito ad amare nessuno dopo di te».
«Eduardo…».
«Fammi finire. Tutti questi anni ho creduto di vivere la mia vita, di realizzare i miei sogni, ma tutto ciò che ho ottenuto sapeva di fallimento, perché tu non eri lì a condividerlo con me».
Valeria si sedette dall’altro lato della madre, attenta.
«E sai qual è stata la parte peggiore?», continuò Eduardo. «Sapere che tutto ciò che ho ottenuto è stato grazie a un’idea tua. Ogni nuovo cliente, ogni contratto chiuso, ogni premio… era un promemoria che ero stato troppo stupido per riconoscere la tua intelligenza quando eravamo insieme».
«Perché me lo stai raccontando adesso?», chiese Gabriela.
«Perché voglio che tu sappia che sono maturato. Che ho imparato a riconoscere quando ho torto. E che la lezione più grande della mia vita è stata perderti».
Isabel, che non capiva del tutto la conversazione, ma intuiva che fosse importante, prese la mano di Eduardo e quella della madre, unendole sul tappeto.
«Fatto. Ora siete di nuovo amici».
Risero tra le lacrime. L’innocenza della bambina portò un sollievo momentaneo alla tensione.
«Si fa così la pace?», chiese Eduardo a Isabel.
«Così mi insegna la maestra. Quando due persone litigano, devono darsi la mano e chiedere scusa».
«E funziona?».
«Funziona sempre», rispose Isabel con la certezza assoluta dei suoi tre anni.
Gabriela guardò le loro mani, ancora unite dalla figlia, e per un momento si concesse di ricordare come quelle mani grandi e callose si incastrassero perfettamente nelle sue.
«Isabel, vai a giocare con Valeria», chiese dolcemente.
«Ma voglio vederli fare la pace».
«La faremo, tesoro, ma questa è conversazione da adulti». Guadalupe portò le due bambine in camera, lasciando Eduardo e Gabriela soli in salotto.
«Gabriela, io…», cominciò lui.
«No», lo interruppe. «Adesso tocca a me parlare». Si alzò e andò verso la finestra, guardando la pioggia che cadeva ancora fuori. «Hai ragione su una cosa. Non ti ho mai raccontato della gravidanza in tempo. Avevo paura. Paura che pensassi fosse uno stratagemma per trattenerti».
«Non lo avrei mai pensato».
«Sì che l’avresti pensato. Eri ossessionato da quel posto di lavoro a Madrid. Parlavi ogni giorno di come fosse la tua occasione per dimostrare di cosa eri capace. E io non volevo essere il peso che ti frenava».
Eduardo le si avvicinò, ma non la toccò.
«E quando scoprii di essere incinta, tu eri già diverso con me. Più distante, più impaziente. Parlavi del futuro come se io non ne facessi parte».
«Ero nervoso per il nuovo lavoro. Non era nulla di personale contro di te».
«Certo che era personale, Eduardo. Mi guardavi come se fossi un ostacolo. Come se la mia vita semplice di paese non fosse sufficiente per i grandi piani che avevi». Le sue parole erano lame. Eduardo sapeva che erano vere, anche se facevano male.
«Quando te ne andasti, cercai di dirtelo al telefono. Chiamai quindici volte in tre giorni. Non rispondesti mai».
«Avevo cambiato numero…».
«Lo so adesso. Ma allora, pensavo che mi stessi ignorando di proposito. Che avessi deciso di tagliare tutti i legami con me». Gabriela si voltò verso di lui, e lui vide tutto il dolore degli ultimi dodici anni riflesso nel suo volto. «Il quarto giorno iniziai a sanguinare. Mia madre mi portò di corsa in ospedale. I medici dissero che stavo perdendo il bambino».
«Gabriela…», cercò di toccarla, ma lei si ritrasse.
«Sai qual è stata la parte peggiore? Non è stato il dolore fisico. È stato essere lì da sola, perdere il figlio dell’uomo che amavo, e non poter parlare con lui. È stato gridare il tuo nome durante il parto e non avere nessuno che mi tenesse la mano, se non mia madre».
Eduardo sentì le lacrime scendergli sul viso senza controllo. In tutti quegli anni, aveva immaginato varie versioni di ciò che era accaduto, ma non aveva mai pensato ai dettagli più dolorosi.
«Mi dispiace tanto. Gabriela, mi dispiace davvero».
«Dispiace anche a me. Mi dispiace di non aver insistito di più. Mi dispiace di aver lasciato che l’orgoglio parlasse più forte. Mi dispiace di averti lasciato andare senza lottare».
Rimasero lì, nel piccolo salotto di Guadalupe, a piangere insieme per la prima volta in dodici anni. Piangendo per il bambino che avevano perso, per il tempo sprecato, per le parole mai dette.
«Che facciamo adesso?», chiese Eduardo, con la voce rotta.
«Non lo so. Non so se si può tornare indietro dopo tanto tempo».
«Non parlo di tornare indietro. Parlo di ricominciare».
«Eduardo, ho due figlie. Loro sono la mia priorità. Non posso permettermi di farmi male di nuovo. Di far male a loro».
«E chi ha detto che ti farò male?».
«L’hai già fatto una volta».
«Ero un ragazzo di ventidue anni. Un ragazzo spaventato e insicuro che non sapeva come gestire la responsabilità. Oggi sono un uomo di trentaquattro anni che ha imparato che il successo non vale nulla se non hai con chi condividerlo».
Gabriela scosse la testa. «È molto complicato, Eduardo. Troppo».
«Non ti chiedo di sposarmi domani. Ti chiedo una possibilità. Una possibilità per dimostrare che posso essere l’uomo che hai sempre meritato».
Prima che Gabriela potesse rispondere, Valeria apparve in salotto. «Mamma, ha smesso di piovere. Possiamo tornare a casa?».
Gabriela guardò fuori dalla finestra. Aveva davvero smesso di piovere, e gli ultimi raggi del giorno filtravano tra le nuvole. «Certo, tesoro».
«E lui viene con noi?», chiese Valeria indicando Eduardo.
«Lui deve tornare a casa sua», rispose Gabriela.
«Ma… e la nostra casa? È tutta rotta».
Eduardo si accovacciò all’altezza della bambina. «Valeria, se la tua mamma lo permette, posso aiutare ad aggiustare la vostra casa».
«Davvero?».
«Davvero. Ma solo se la tua mamma vuole».
Valeria corse da Gabriela. «Mamma, lascia che aggiusti la nostra casa, per favore, per favore!».
«Valeria, non funziona così».
«Perché no?».
Gabriela sospirò. Come spiegare a una bambina di cinque anni tutte le complicazioni delle relazioni adulte? «Perché… quando un adulto aiuta un altro, a volte questo crea dei legami».
«Che tipo di legami?», chiese Eduardo, alzandosi.
«Lo sai bene. Credi di poter arrivare qui dopo dodici anni, costruire una casa nuova, e che io resti in debito con te per il resto della mia vita?».
«Non voglio che tu sia in debito con me. Voglio che accetti ciò che ti spetta di diritto».
«Come sarebbe?».
Eduardo tornò in cucina e prese la cartellina bagnata che aveva lasciato sul tavolo. La aprì e tirò fuori alcuni documenti che, miracolosamente, non si erano rovinati con la pioggia. Erano atti costitutivi di società.
«Ti ricordi la nostra impresa? “Construcciones Ramírez y Hernández”?».
«Me la ricordo. L’hai chiusa quando sei andato via».
«Non ho chiuso nulla. Ho solo cambiato città. L’azienda ha continuato a funzionare. È cresciuta. È diventata un gruppo di imprese. E tu sei sempre stata socia al 50%».
Gabriela prese i documenti con le mani tremanti. «Questo… non può essere vero».
«È vero. È tutto lì. Dodici anni di utili accumulati in un conto a tuo nome».
«Quanto?».
Eduardo scrisse una cifra su un foglietto della lista della spesa di Guadalupe e glielo mostrò. Gabriela si lasciò cadere sulla sedia. La cifra aveva sette zeri.
«È uno scherzo».
«Non è uno scherzo. È tuo. È sempre stato tuo».
«Ma perché? Avresti potuto cambiare i contratti. Avresti potuto togliermi dalla società».
«Perché sapevo che un giorno sarei tornato. E quando fossi tornato, volevo che ricevessi tutto quello che meritavi. L’idea è stata tua».
Guadalupe, che era rientrata in cucina, guardò i documenti oltre la spalla della figlia. «Dio mio, Gabriela. Sei ricca».
«Non lo voglio», disse Gabriela, spingendo via le carte. «Non voglio niente di tutto questo».
«Gabriela…».
«Sai perché no? Perché non è mio. Non ho lavorato per questo. Non lo merito».
«Certo che lo meriti!», protestò Eduardo. «L’azienda esiste solo perché tu hai avuto l’idea. L’app ha funzionato perché hai pensato a ogni dettaglio. Tutto quello che ho costruito si basa su ciò che mi hai insegnato: trattare i clienti, l’orgoglio del lavoro ben fatto».
«Sono sciocchezze e lo sai».
«È la verità. E lo sai. Ricordi quando dicevi che dovevo smettere di vedere i clienti come numeri, che dovevo capire la storia di ciascuno, le loro necessità reali? È questo che ha fatto crescere la mia azienda».
Gabriela scosse la testa, ostinata. «Non accetterò i tuoi soldi».
«Allora non accettarli come miei. Accettali come l’eredità di nostro figlio».
Il silenzio che calò in cucina fu assoluto. Perfino i bambini, che giocavano in camera, sembrarono percepire il peso del momento.
«Come puoi dire una cosa del genere?», sussurrò Gabriela.
«Perché è la verità. Se nostro figlio fosse nato, oggi avrebbe quasi dodici anni. E tutto questo sarebbe suo, anche». La voce di Eduardo era carica di emozione. «Accettalo. Almeno per lui. Per il bambino che non abbiamo mai conosciuto».
Gabriela si alzò bruscamente e uscì dalla cucina. La sentirono uscire di casa, sbattendo la porta.
«Vai dietro a lei», ordinò Guadalupe.
«Credo sia meglio lasciarla sola…».
«Va’ dietro a lei!», ripeté Guadalupe, più ferma. «Mia figlia ha passato dodici anni a scappare. Non lasciare che scappi di nuovo».
Eduardo trovò Gabriela seduta sul gradino di casa, a guardare la strada bagnata. Il sole tramontava, tingendo le nuvole di arancione e viola. Si sedette accanto a lei, senza dire nulla.
«Non ne hai il diritto», disse lei senza guardarlo. «Non hai il diritto di usare nostro figlio per convincermi di qualcosa».
«Hai ragione. È stato meschino da parte mia. Scusami».
Rimasero in silenzio per qualche minuto, ascoltando i suoni del vicinato che tornava alla vita dopo la pioggia.
«Eduardo, devo farti capire una cosa. Ho costruito una vita qui. Non è la vita che sognavo da ragazza, ma è la mia vita. Le mie figlie sono ambientate, hanno amiche, vanno alla scuola del quartiere. Non posso buttare tutto all’aria e fingere che gli ultimi dodici anni non siano esistiti».
«Non ti chiedo di buttare via nulla».
«Sì che me lo chiedi. Arrivi qui con i soldi, con proposte di ricostruire la casa, di ricominciare. Credi che sia facile per me? Credi che non sia allettante accettare tutto e fingere che possiamo tornare a essere quelli di una volta?».
«Perché sarebbe fingere?».
«Perché non siamo più le stesse persone, Eduardo. Non sono più quella ragazza di vent’anni che credeva nelle favole. Sono una donna di trentadue anni, madre di due figlie, che ha imparato a contare solo su se stessa».
«E io non sono più quel ragazzo orgoglioso che credeva di sapere tutto. Sono un uomo che ha imparato che non vale nulla avere successo se non hai una famiglia con cui condividerlo».
«Famiglia», lo fissò Gabriela. «Vuoi una famiglia già pronta, Eduardo? È questo? Ti sei stancato di stare solo a Madrid e decidi di tornare dalla tua ex moglie, che guarda caso ha due figlie carine?».
«Non è questo».
«Allora cos’è?».
«È che non ho mai smesso di amarti. E queste settimane che ho trascorso qui in paese prima di avere il coraggio di venire, osservandovi da lontano, mi hanno fatto capire che ciò che ho sempre chiamato “successo” era solo un modo per riempire il vuoto che avevi lasciato».
Valeria apparve alla porta di casa. «Mamma, la nonna chiama per la cena».
«Arriviamo, tesoro».
«Lui cena con noi?».
Gabriela guardò Eduardo, chiaramente combattuta. «Lui deve andare, Valeria».
«Perché? La nonna ha fatto cibo per tutti».
«Perché vive lontano».
«Dove vive?».
Eduardo rispose prima di Gabriela. «Vivo a Madrid, Valeria. È molto lontano da qui».
«E te ne vai oggi?».
«Non lo so ancora».
«Spero di no. Mi sei piaciuto». La semplicità della bambina commosse entrambi. Valeria rientrò, lasciandoli di nuovo soli.
«Alle bambine piaci», commentò Gabriela.
«Sono straordinarie. Le hai cresciute benissimo».
«Le ho cresciute da sola», sottolineò lei.
«Lo so. E hai fatto un lavoro meraviglioso».
«Non rovinare tutto», sussurrò Gabriela. «Per favore. Non conquistare il loro cuore per poi andartene. Hanno già sofferto una delusione con Alejandro. Non reggerebbero un’altra».
«Chi ha detto che me ne andrò?».
«Te ne andrai. Alla fine te ne vai sempre. È la tua natura».
«Gabriela, voglio restare».
«Vuoi restare? Per quanto? Una settimana? Un mese? Finché non ti stanchi della vita di paese e ti ricordi di tutti gli impegni importanti che ti aspettano a Madrid?».
«Voglio restare per sempre». Le parole gli uscirono prima di pensarci, ma appena le disse, seppe che erano vere.
«Per sempre è molto tempo», disse Gabriela.
«Non è abbastanza».
Guadalupe apparve alla porta. «State lì tutta la notte! La cena si raffredda!».
Entrarono a cenare. La tavola era apparecchiata per cinque. Guadalupe, Gabriela, le due bambine ed Eduardo. Era la prima volta in dodici anni che sedeva a tavola in famiglia. Durante la cena, le bambine fecero mille domande. Volevano sapere com’era Madrid, se aveva una casa grande, se aveva una macchina bella. Eduardo rispose con pazienza, attento a non sembrare vanitoso.
«E ti piace vivere da solo?», chiese Valeria.
«No. Non mi piace per niente».
«Perché non ti sposi di nuovo?», sbottò Valeria.
«Valeria!», la rimproverò Gabriela.
«È solo curiosità, mamma».
Eduardo sorrise. «Perché l’unica persona con cui volevo sposarmi era già sposata con me. E io ho rovinato tutto».
«Però… potete sposarvi di nuovo!», suggerì Isabel, innocente.
«Non funziona così, tesoro», spiegò Gabriela.
«Perché no?». Era una domanda semplice, dettata dalla pura logica di una bambina, e nessuno seppe dare una risposta convincente.
Dopo cena, Eduardo aiutò Guadalupe a lavare i piatti mentre Gabriela faceva il bagnetto alle bambine.
«Ha paura», disse Guadalupe a bassa voce.
«Lo so».
«Non è paura di te. È paura di se stessa. Paura di credere di nuovo e restare delusa».
«Cosa posso fare per dimostrare che sono cambiato?».
«Tempo. Pazienza. E soprattutto prove. Prove che non scapperai alla prima difficoltà».
«E quali sarebbero queste prove?».
«Resta. Almeno per un po’. Mostrale che fai sul serio nel voler far parte della loro vita».
«Crede che lei lo permetterà?».
«Credo che ne muoia dalla voglia. Ma non lo ammetterà mai».
Quando Gabriela tornò dal salotto con le bambine in pigiama, Eduardo stava riponendo gli ultimi piatti.
«Mamma, posso fare una domanda?», disse Valeria.
«Certo».
«Se voi due vi piacete, perché non state insieme?».
Gabriela sospirò. Era la seconda domanda difficile della serata. «Perché a volte volere bene a qualcuno non basta, tesoro. Le persone crescono, cambiano, prendono strade diverse».
«Ma adesso siete di nuovo sulla stessa strada», osservò Valeria con la sua logica infantile.
«Non è così semplice».
«Perché no?».
Gabriela guardò Eduardo, che osservava la conversazione senza intervenire. «Perché quando due persone si feriscono molto, a volte è difficile fidarsi di nuovo».
«Ma potete provare», insisté Valeria.
«Isabel, vai a lavarti i denti», chiese Gabriela, cambiando argomento.
«Posso lavare i denti anche a lui?», chiese Isabel indicando Eduardo. Tutti risero.
«Lui sa lavarsi i denti da solo», rispose Gabriela.
«Ma io voglio aiutare!».
«Grazie, Isabel», disse Eduardo. «Ma non dormirò qui. Andrò in hotel».
«Perché non dormi qui?», chiese Valeria. «La nonna ha un divano letto in salotto».
«Perché lui ha le sue cose in hotel», spiegò in fretta Gabriela.
«Quali cose? Vestiti, spazzolino…».
«La nonna può prestargli uno spazzolino!», propose Isabel.
Eduardo guardò Gabriela, in attesa di una sua decisione.
«È meglio che tu vada in hotel, davvero», disse lei. «Le bambine devono svegliarsi presto domani per la scuola».
«Mamma, domani è sabato!», ricordò Valeria.
Gabriela arrossì, rendendosi conto di essere stata colta in una piccola bugia. «Comunque. È meglio che vada».
«Va bene», disse Eduardo. «Andrò in hotel». Salutò le bambine, che insistettero per stringerlo forte in un abbraccio. Alla porta, Gabriela lo accompagnò.
«Eduardo».
«Sì».
«Grazie. Per… essere tornato. Per avermi raccontato di Doña Carmen. Avevo bisogno di sapere che… che avevi chiesto di me».
«Grazie a te per avermi ascoltato».
Rimasero lì, senza sapere bene come salutarsi. Non erano più marito e moglie, ma nemmeno estranei.
«Quanto rimarrai in città?», chiese lei.
«Dipende».
«Da cosa?».
«Da te».
«Eduardo, so che è complicato. So che devo dimostrare che faccio sul serio. Ma so anche che non riuscirei ad andarmene di nuovo. Non stavolta».
«E il tuo lavoro? La tua vita a Madrid?».
«La mia azienda ha quindici soci adesso. Possono gestire tutto senza di me per un po’. E la mia vita a Madrid… non è vita. È solo esistere».
Gabriela si morse il labbro, segno che era nervosa. «Devo pensarci».
«Quanto tempo ti serve?».
«Non lo so. Forse per sempre».
Eduardo sorrise tristemente. «Allora, è meglio che cerchi un appartamento in affitto».
Se ne andò, lasciando Gabriela sulla soglia a guardare l’auto di lusso scomparire dietro la curva.
La mattina seguente, Gabriela si svegliò con il rumore di macchine. Guardò dalla finestra e vide un furgone di un’impresa edile parcheggiato davanti alla casa distrutta. Eduardo era lì, non più in abito, ma con jeans e camicia da lavoro, a dirigere una squadra di tre muratori.
Scese di corsa, ancora in pigiama. «Che stai facendo?».
«Buongiorno anche a te», rispose lui sorridendo.
«Non ho autorizzato questo».
«Lo so. Ma la casa era pericolosa. Se fosse crollata e avesse ferito qualcuno, non me lo sarei mai perdonato».
«Eduardo, ho detto che non voglio carità».
«E io non sto facendo carità. Sto facendo sicurezza pubblica. E poi, sto sistemando la parte della proprietà che mi spetta come socio».
«Socio?».
«Ramírez y Hernández», disse indicando un cartello improvvisato che avevano appeso. «50% tuo, 50% mio».
Uno dei muratori si avvicinò. «Capo, abbiamo trovato questo», disse, mostrando una scatolina di legno.
Gabriela la riconobbe subito. Era la scatola dove teneva le foto antiche, le lettere che Eduardo le aveva mandato e alcuni ricordi.
«Era sotto le macerie della camera», spiegò il muratore.
Eduardo prese la scatola e la porse a Gabriela. «Tua figlia aveva ragione. Hai davvero conservato le foto».
Gabriela strinse la scatola al petto. «È solo nostalgia».
«È nostalgia tenere le foto. È amore non riuscire a buttarle dopo dodici anni».
Le bambine comparvero correndo, eccitate per il trambusto. «Papà! Ah, no… zio Eduardo! Costruirete la nostra casa nuova?», chiese Valeria.
«Se la vostra mamma lo permette», rispose Eduardo.
«Lascialo, mamma, per favore!», implorò Isabel.
«Non è così semplice, bambine».
«Perché no?», chiese Valeria. «La casa è rotta. Lui vuole sistemarla. Dov’è il problema?».
Gabriela guardò le figlie, poi Eduardo, poi i muratori in attesa.
«Va bene», disse infine. «Ma pago io i lavori».
«Con quali soldi?», chiese piano Eduardo.
«Con i soldi che hai detto essere miei».
«Allora li accetti?».
Gabriela esitò. «Ne accetto una parte. Il necessario per la casa. Il resto rimane da parte per le bambine, per l’università».
«Va bene. Come vuoi tu».
I muratori tornarono al lavoro, ed Eduardo si avvicinò a Gabriela. «Posso chiederti una cosa?».
«Dipende da cosa».
«Lasciami aiutare. Non come padrone. Ma come… come muratore. Davvero. Ho imparato il mestiere da mio padre, ricordi? Mi manca lavorare con le mani».
Gabriela lo osservò. Sembrava sincero. L’uomo che dirigeva una multinazionale a Madrid, che chiedeva di posare mattoni.
«Per quanto tempo?».
«Quanto sarà necessario».
«E dopo…».
«E dopo, si vedrà». Era una risposta vaga, ma per qualche motivo, Gabriela accettò.
Nelle settimane seguenti, Eduardo arrivava ogni mattina e lavorava fino al tramonto. Si tolse la camicia elegante e lavorò in t-shirt, sudando sotto il sole andaluso. A poco a poco, conquistò la fiducia delle bambine, che iniziarono a trattarlo come parte della famiglia.
Valeria, soprattutto, si affezionò. Ogni giorno gli chiedeva se sarebbe andato via, e ogni giorno lui rispondeva di no. Isabel, la più piccola ed estroversa, presto cominciò a chiamarlo «papà Eduardo».
«Perché non può essere papà?», chiese un giorno Isabel con innocenza.
«Perché non sono il vostro papà, tesoro», spiegò Eduardo. «Avete già un papà».
«Ma lui non è qui», disse Valeria, pratica. «E tu sì».
«Essere qui non mi rende vostro papà. Essere papà è molto di più».
«Allora, cosa rende qualcuno papà?», chiese Valeria.
Eduardo smise di fissare una tavola e si sedette per terra accanto a loro. «Essere papà è accudire, proteggere, insegnare. Essere presente nei momenti importanti. È amare senza aspettarsi nulla in cambio».
«Tu fai tutto questo», osservò Isabel.
«Lo faccio perché vi voglio bene. Ma non sono il vostro papà biologico».
«E se la mamma si sposa con te? Allora diventi il nostro papà?», chiese Valeria.
Eduardo guardò Gabriela, che fingeva di concentrarsi a spazzare le macerie, ma ascoltava chiaramente. «Se un giorno succedesse… sarei come un patrigno. Un papà di cuore».
«Qual è la differenza?».
«La differenza è che un papà di cuore sceglie di amarti. Non ama per obbligo o per sangue, ma perché vuole».
«Allora è meglio un papà di cuore di un papà vero?», chiese Isabel.
«Non è né meglio né peggiore. È diverso. L’ideale è averli entrambi. Ma se non si può, un papà di cuore è un dono meraviglioso».
Gabriela smise di spazzare e si avvicinò. «Bambine, andate a giocare a casa della nonna».
Quando rimasero soli, Gabriela si sedette accanto a Eduardo tra le macerie della casa in costruzione. «Grazie per aver parlato con loro così. Con onestà».
«Se la meritano. Alejandro… non ha mai saputo parlare con loro in questo modo. Si sentiva sempre a disagio quando facevano domande sulla famiglia».
«Forse perché sapeva di non avere tutto il tuo cuore».
Gabriela lo fissò. «Come lo sai?».
«Me l’ha detto tua madre. Ha detto che non sei mai riuscita ad amarlo del tutto perché io ero ancora lì, come un fantasma».
«Mia madre parla troppo».
«Parla perché ti vuole bene e vuole vederti felice».
«E tu credi che non lo sia?».
Eduardo guardò intorno, la casa a metà, la vita semplice che lei aveva costruito. «Credo che tu sia una sopravvissuta. Che si è abituata alle briciole quando merita un banchetto».
«Briciole?», Gabriela si offese. «Credi che la mia vita siano briciole?».
«Credo che ti sia limitata. Ti sei convinta di non meritare più di questo».
«E cosa merito, secondo te?».
«Meriti di essere amata completamente. Meriti qualcuno che riconosca la tua intelligenza, che valorizzi le tue idee, che condivida i sogni con te. Meriti una casa bella, stabilità economica. E, soprattutto, meriti di essere felice senza sensi di colpa».
Gabriela abbassò lo sguardo. «È più complicato di così».
«Perché?».
«Perché ho paura». Era la prima volta che lo ammetteva apertamente.
«Paura di cosa?».
«Paura di tornare a credere e che tu te ne vada. Paura che le bambine si affezionino di più e poi soffrano. Paura di me stessa».
«Cosa c’è da temere di te stessa?».
«Paura di scoprire che ti amo ancora. E di non riuscire più a fermarmi».
Le sue parole rimasero sospese nell’aria. Era il primo vero riconoscimento che c’erano ancora sentimenti.
«E se non dovessi fermarti?», chiese lui piano.
«Tutti devono smettere di amare qualcuno, prima o poi».
«Perché? A volte… le persone ritrovano la strada l’una verso l’altra».
Gabriela scosse la testa. «Dodici anni, Eduardo. Dodici anni. Non siamo più gli stessi».
«No. Siamo migliori».
La casa fu pronta sei settimane dopo. Era piccola, ma accogliente e solida. Con tre camere, un soggiorno luminoso e una cucina in cui finalmente ci stavano tutti.
Il giorno del trasloco, Eduardo stava aiutando a caricare l’ultimo mobile, il vecchio materasso di Gabriela, che ora sarebbe finito nella spazzatura.
«Fatto», disse, asciugandosi il sudore.
«È perfetta», disse Gabriela, guardandosi intorno con gli occhi lucidi. Le bambine correvano per le stanze nuove, gridando di gioia.
«E allora…», chiese Eduardo, «cosa viene adesso? Il lavoro è finito».
Gabriela sentì un nodo di panico. «Te… te ne vai?».
«Ti ho detto che dipende da te. Vuoi che me ne vada?».
«No!», gridarono Valeria e Isabel all’unisono dal corridoio.
Gabriela inspirò a fondo. Guardò le figlie, guardò la casa che lui aveva costruito con le sue mani, poi guardò lui. L’uomo sporco di gesso, sudato, ma che la guardava con più amore di chiunque altro.
«No», disse piano. «Non voglio che te ne vada».
«Né oggi? Né domani?».
«Mai».
«La mamma ha detto che resti per sempre», tradusse Isabel, correndo ad abbracciare la gamba di Eduardo.
Eduardo sorrise, un sorriso così grande da illuminargli il viso. «Allora credo che dovrò restare».
«Ma dove dormirai?», chiese Valeria, pratica. «Ci sono solo tre camere. La mia e quella di Isabel, e quella della mamma».
Eduardo guardò Gabriela, alzando un sopracciglio.
Gabriela arrossì, ma non distolse lo sguardo. «Credo… credo che la camera della mamma sia abbastanza grande per due».
Valeria sorrise, soddisfatta. «Lo sapevo. Vi sposerete di nuovo».
«Un giorno alla volta, tesoro», disse Gabriela, ridendo.
«Un giorno alla volta», ripeté Eduardo, stringendola a sé.
Sei mesi dopo, si sposarono nel piccolo cortile della casa nuova. Fu una cerimonia semplice, solo con Guadalupe e alcuni vicini. Valeria e Isabel fecero da damigelle, con vestitini uguali.
Quando il funzionario disse «Può baciare la sposa», Isabel gridò: «Bacio di papà e mamma!».
E mentre Eduardo baciava Gabriela, capì che non stava aggiustando solo una casa. Stava ricostruendo un focolare. Ci erano voluti dodici anni, un viaggio da Madrid alla miseria e ritorno all’amore, ma finalmente era esattamente dove doveva essere. Aveva imparato che il vero successo non si misura in euro su un conto in banca, ma nella solidità delle pareti che costruisci attorno alle persone che ami.