Lena viaggiava in minibus, tenendo stretta fra le mani una scatola legata con cura. All’interno c’erano due torte fatte in casa: una charlotte alle ciliegie e una soffice torta al miele. Erano proprio questi dolci i preferiti di sua suocera, Valentina Pavlovna.
I figli e il marito non ricordavano mai le date né prestavano attenzione ai piccoli dettagli. Lena, ex insegnante integerrima, si adoperava sempre per mantenere vivi i legami familiari, soprattutto con la famiglia di suo marito, anche quando non era affatto semplice.
Guardò lo schermo del telefono: 1° maggio. Il compleanno di Valentina Pavlovna era domani. Ma Lena pensò che fosse meglio arrivare in anticipo: aiutare nelle faccende di casa, sistemare i fiori, magari preparare insieme qualche dolce. Spesso ripensava alle visite dalla nonna in campagna durante l’infanzia, all’accoglienza calorosa che trasformava ogni incontro in una festa. Quella stessa sensazione desiderava donarla alla suocera: farla sentire necessaria, amata e non dimenticata.
All’arrivo, il tassista la lasciò davanti a una vecchia casa. Il cancelletto era socchiuso, quasi come a invitare l’ospite. Lena bussò, ma non ottenne risposta e, con passo leggero, entrò. Dalla cucina giungeva una voce maschile, cupa e irritata:
— Mamma, perché la difendi? Ha distrutto tutto!
Lena si fermò di colpo. Quella era la voce di Egor. Ma lui era partito per una trasferta a Voronež di tre giorni… così aveva detto. Con passi silenziosi, Lena si avvicinò alla finestra aperta e scrutò all’interno.
— Egor, non innervosirti — disse Valentina Pavlovna con voce stanca — Lena è una brava persona. Non ho mai parlato male di lei. Ogni famiglia ha i suoi problemi. Un tempo l’amavi… forse l’ami ancora?
— Basta, mamma — rispose lui con durezza — Siamo divorziati, punto. Non voglio più sentirne parlare. Adesso sono con Irina e va tutto bene. Per favore, smettila.
Un silenzio pesante, interminabile. Lena rimase lì, come se qualcuno l’avesse colpita con un secchio d’acqua gelida dall’interno. Divorziati? Egor aveva chiesto il divorzio senza una parola, senza spiegazioni, senza un motivo? Come se la loro vita fosse un foglio da cestinare?
Fu soltanto un attimo dopo che la scatola le sfuggì di mano. Cadde a terra, si aprì e la farcitura alle ciliegie si sparse sul sentiero come sangue su un candido sfondo primaverile. Lena si sedette su una panchina di legno davanti alla casa. Le mani tremavano. Coprì il volto con le mani. Le lacrime non uscivano: erano rimaste intrappolate dentro, incapaci di fluire.
Un vento leggero le accarezzò i capelli. Il giardino era in fiore: narcisi, lillà, primi germogli. L’aria profumava di primavera… e di tradimento. Dopo qualche minuto, Valentina Pavlovna la trovò lì. Uscì di casa, vide la scatola schiacciata, la torta sporcata e Lena seduta, come una persona persa.
— Lena… — disse piano, sedendosi accanto a lei — Hai sentito tutto?
Lena rimase in silenzio.
— Scusami, non sapevo sarebbe venuto oggi — mormorò la donna più anziana — Pensavo saresti arrivata domani.
— Mi ha detto che siamo divorziati — sussurrò Lena — E io non avevo idea che stessimo così male.
— Avete attraversato momenti difficili… ma io speravo che ce l’avreste fatta.
— Quindi ha trovato un’altra — disse Lena — e io continuavo a portare torte, a sistemare i fiori e a recitare la parte della “nuora perfetta”…
Valentina Pavlovna strinse forte la sua mano, in silenzio, a lungo. Poi le sussurrò:
— Tu non c’entri nulla. Lui si è perso. Gli uomini spesso non scappano da un’altra donna, ma da se stessi, dalle proprie paure e dai propri errori. Tu sei una brava persona. Non permettere a te stessa di pensarla diversamente.
Quella giornata non si dissero altro. Restarono sedute fianco a fianco. Valentina Pavlovna portò del tè e insieme lo bevvero in giardino. Lena non pianse: le lacrime rimasero dentro, come un frutto acerbo che non ha ancora ceduto il suo succo.
Il giorno seguente, Lena fece comunque gli auguri alla suocera. Ma non più come nuora: come una persona cara, un affetto autentico. Si abbracciarono, e in quel momento Lena avvertì una forza nuova, non derivata dal dolore o dal risentimento, ma dalla consapevolezza di poter superare anche questo ostacolo.
Passarono due mesi. Lena affittò un appartamento in città e trovò lavoro in un centro per bambini con bisogni speciali, insegnando musica. Visse in silenzio, senza parole di troppo, senza accuse e senza il dolore che un tempo le lacerava il cuore.
Una sera ricevette una telefonata da Valentina Pavlovna.
— Lena, posso venire da te? Devo fare degli esami in ospedale. Ti dispiace?
Lena rimase a lungo in silenzio, poi inspirò a fondo:
— Certo, vieni pure.
Così Lena trovò nella sua vita una madre vera: non più suocera, ma un affetto profondo. Da quel momento, lei ed Egor non ebbero più contatti. Qualche tempo dopo, Egor tentò di riscriverle con un messaggio secco: “Scusa. Avevo torto.” Lena lo eliminò senza esitazione, non per rabbia, ma con la calma di chi sa che quella storia era ormai lontana e superflua.
La vita proseguì, e il dolore cominciò a dissolversi, lasciando spazio al rispetto per sé stessa, per l’amore vissuto e per la donna che, in quel giardino, l’aveva presa per mano. Tre anni dopo, Lena non considerava più quel giorno una tragedia, ma l’inizio di un nuovo capitolo: la sua seconda vita, silenziosa, matura, ricca di significati che prima non coglieva.
Non temeva più la solitudine. Ora viveva davvero. Ogni mattina iniziava con il fischio del bollitore in una cucina luminosa e un lieve sorriso. Sulla parete pendeva il lavoretto di un suo allievo: un sole rotondo, un cielo azzurro, dei fiori e, scritto con lettere incerto, “Lena Viktorovna, lei è la più gentile”.
Non si risposò: non perché non lo desiderasse, ma perché non cercava più qualcuno per dovere. Aveva imparato a sostenersi da sola. Con il tempo, Valentina Pavlovna divenne per lei una madre a tutti gli effetti. Quando iniziò ad avere problemi di mobilità, Lena la accolse a casa sua: una piccola e accogliente camera con un vaso di margherite, la poltrona della nonna, una coperta ricamata e un gatto accucciato sul davanzale divennero parte della loro quotidianità.
Un giorno Valentina Pavlovna, con voce sommessa, le disse:
— Sai, Lena… Sei stata per me come una figlia. Anzi, di più. Mio figlio ti ha dimenticata, ma tu… sei rimasta. Grazie.
Lena non rispose a parole. Strinse ancora di più la sua mano. Quando la suocera morì — dolcemente, nel sonno, come dissolvendosi nei primi raggi dell’alba — Lena restò al suo fianco a lungo, pianse piano, senza singhiozzi, come si fa quando si saluta qualcuno che si ama profondamente.
Poi uscì in giardino, piantò un ramo di lillà e appuntò sul suo diario: “Mamma. Primavera. Grazie”.
Un anno più tardi, bussarono nuovamente alla sua porta. Stavolta si trovò davanti un uomo esile, con qualche ciocca d’argento tra i capelli e lo sguardo preoccupato.
— Buongiorno… sono Pavel, il fratello di Egor. Forse non vi ricordate di me…
— Mi ricordo — rispose Lena con un cenno.
— Mia madre parlava sempre di voi, fino alla fine. Diceva che eravate il suo conforto e il suo esempio. Se avesse avuto una figlia, avrebbe desiderato che fosse come voi.
Lena sorrise commossa.
— Grazie di essere venuto. Il lillà è in piena fioritura. Volete vederlo?
Uscirono insieme in giardino. Quel lillà fioriva davvero con la stessa generosità di tre anni prima. Pavel colse un piccolo ramo e lo porse a Lena.
— La vita continua, vero?
— Sì — rispose — ma adesso con amore. Senza condizioni. Senza paura. Proprio com’è.
Quella sera Lena si sedette al pianoforte. I bambini erano andati a letto e la casa era in silenzio. Le sue dita trovarono spontaneamente gli accordi familiari: una melodia semplice e luminosa, quella che un tempo Valentina Pavlovna le aveva chiesto di suonare. Mentre suonava, Lena pianse di nuovo, ma erano lacrime diverse: nate dal calore che provava dentro, dall’amore che non era mai svanito e dalla certezza di aver scelto la strada giusta.