— Mamma, dove è il mio certificato di nascita? L’allenatore ha detto che senza di esso non mi lasceranno partecipare alla gara.
La voce del figlio maggiore, quasi tredicenne, strappò Anna dai pensieri sulla cena che stava preparando. Corrugò la fronte, asciugandosi le mani sul grembiule.
— Da qualche parte tra i documenti, tesoro. Nella grande cartella.
— E dove si trova la cartella?
Anna si irrigidì. La cartella. Grande, blu, di cartone rigido. Sapeva bene dove fosse. Nello studio di suo marito. Nel cassetto più basso della scrivania.
Viktor non le aveva mai permesso di entrare lì. «Il mio spazio, Anja. Un posto dove posso pensare».
In quindici anni di matrimonio non aveva mai infranto quel divieto. Ma ora Viktor non c’era, era partito per un altro viaggio di lavoro di tre giorni, e al figlio il documento serviva già per domani.
Spinse incerta la pesante porta di quercia. Lo studio profumava di legno, pelle e del suo dopobarba.
Tutto era severo, perfetto, come lui stesso. Scrivania di legno scuro, poltrona massiccia, scaffali di libri disposti per colore.
Anna si accovacciò vicino alla scrivania. Il cassetto inferiore, come immaginava, era chiuso a chiave. Ma sapeva dove fosse la chiave.
Piccola, argentata, sempre attaccata al mazzo con quelle della cassaforte e dell’auto, appesa al gancio accanto alla scrivania.
Simbolo di fiducia, diceva lui. Ora capiva: era simbolo di superiorità. La certezza che lei non avrebbe mai osato.
La chiave girò facilmente nella serratura. Eccola, la cartella blu. Ma accanto ce n’era un’altra — bordeaux, con un motivo dorato in rilievo.
Non l’aveva mai vista. La curiosità prevalse su ogni divieto.
Le dita le tremavano mentre la apriva. Da lì la guardava Viktor.
Sorrideva, abbracciando una donna sconosciuta con le lentiggini sul naso. Accanto a loro due bambini — un maschio e una femmina, entrambi incredibilmente simili a suo marito.
Anna sfogliò le fotografie una dopo l’altra. Eccoli al mare, intenti a costruire un castello di sabbia.
Eccoli a festeggiare il compleanno del bambino — una torta con sette candeline. Poi tutti insieme ad addobbare l’albero di Natale in un salotto accogliente e luminoso, che lei non aveva mai visto.
In ogni foto lui appariva… felice. Non l’uomo stanco e serio che tornava a casa da lei e dai loro cinque figli. Ma un altro — leggero, spensierato, innamorato.
Non sentì dolore. Non ci furono lacrime. Solo un vuoto assordante, che riempì ogni parte dentro di lei.
Il mondo che aveva costruito con tanta cura per quindici anni si sgretolò in polvere in pochi secondi.
Seduta sul pavimento in mezzo all’ordine perfetto di quello studio estraneo, capì che tutta la sua vita era una finzione.
Richiuse con cautela la cartella. Estrasse una sola fotografia — quella in cui erano in tre, felici, davanti al mare.
La mise nella tasca del grembiule. Il resto lo rimise al suo posto, chiudendo il cassetto e appendendo la chiave al gancio.
Chiuse piano la porta dello studio, come se temesse di svegliare i fantasmi di una vita felice che non le apparteneva.
Poi si raddrizzò. Il vuoto dentro di lei cominciò a cristallizzarsi, trasformandosi in un ghiaccio tagliente.
Non c’era odio. Solo una chiarezza assoluta, risonante. Sapeva cosa doveva fare.
— Bambini, preparatevi! Tutti da me!
Cinque minuti dopo, tutti e cinque — dal maggiore alla piccola di tre anni — la guardavano stupiti nell’ingresso, mentre lei portava già tre grandi valigie dalle camere.
Non una. Tre. Con il necessario: vestiti di ricambio, documenti, i giocattoli preferiti dei più piccoli, il portatile del maggiore. Agiva come un automa, precisa e senza emozioni.
— Mamma, dove andiamo? — chiese il figlio di mezzo, cercando i suoi occhi.
Lei si inginocchiò per essere alla loro altezza e li abbracciò tutti insieme, per quanto le bastassero le braccia.
— Andiamo a trovare i nonni. Subito. Sarà la nostra piccola avventura.