Abito a fiori, lavaggio a secco dell’anima…

Il lieve fruscio del polietilene, l’odore sterile dei solventi, i volti indifferenti dei dipendenti: la lavanderia a secco «Fiocco di Neve» era un luogo in cui le cose tornavano alla vita mentre le anime, invece, sembravano assopirsi. Viola venne qui di giovedì, come sempre, per ritirare il completo del marito. Artur amava l’ordine, la pulizia, tutto ben sistemato sugli scaffali. Proprio come la loro vita in comune, lunga tre decenni.

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— Il completo di Artur Viktorovič, — disse, indicando il numero dell’ordine.

La ragazza con occhiali rigidi e manicure impeccabile sparì in silenzio nel retro del bancone e tornò con la solita custodia blu scuro. Poi, quasi per inerzia, ne porse una seconda — enorme, gonfia; sotto la plastica trasparente ribolliva un giardino di seta iridescente: giganteschi papaveri scarlatti, fiordalisi, infiorescenze dorate sconosciute.

— Dev’esserci un errore, — sorrise cortesemente Viola. — Ho lasciato solo il completo.

La ragazza, senza la minima ombra di dubbio, puntò un dito lungo e laccato sulla stampa dell’ordine.
— No, è tutto esatto. Completo in lana, blu, un pezzo. Abito in seta, stampa floreale, un pezzo. Resistere è inutile.

Nei film le amanti erano sempre ninfe fragili in minigonna, con vita da vespa e sguardo sfrontato. La rivale di Viola, a giudicare dalla taglia del vestito, era una donna con forme. Decise. Quelle che anche Viola, dopo i cinquanta, aveva cominciato timidamente ad acquisire, ma che nascondeva ancora pudicamente sotto eleganti cappotti semisfiancati. A questa signora, invece, a quanto pareva, non importava. Oppure riteneva che quelle distese paesaggistiche sulla stoffa fossero belle.

La sera ripose il pacco con l’abito sulla poltrona dello studio del marito. Artur tornò stanco, le baciò la fronte, allungò la mano per prendere il giornale. Solo allora notò il muto rimprovero della seta variopinta.

— Artur, che cos’è questo? — chiese Viola. La voce non la tradì, non tremò; solo dentro si morse la guancia fino al sangue per non emettere alcun suono, per non lasciarsi sfuggire un grido che le saliva alla gola, pieno di una tenerezza fasulla lunga trent’anni.

Si preparava mentalmente alle scuse: una prozia di un villaggio sperduto, una festa aziendale, uno scherzo, un assurdo equivoco. Aspettava menzogne, disperazione, rabbia — qualsiasi cosa, fuorché la verità.

Artur si lasciò cadere lentamente, come sotto il peso di pesi invisibili, nella sua poltrona di pelle. Non la guardava. Il suo sguardo annegò da qualche parte nel disegno del tappeto persiano. Si passò una mano sul viso e Viola notò per la prima volta quanto fosse invecchiato, quanto si fossero fatte profonde le rughe agli angoli degli occhi.

— La amo, — risuonò cupo, come venisse da sottoterra.

Il silenzio nella stanza divenne denso, tintinnante, fisicamente percepibile. Queste tre parole cancellavano tutto. Ogni secondo vissuto insieme, ogni sorriso, ogni tazza di caffè servita la mattina. Si scoprì che da un anno viveva in due case. E si scoprì anche che Viola conosceva benissimo quella donna. Era la parrucchiera Stella, da cui si era prenotata una volta mentre la sua maestra era malata. Il taglio era venuto terribilmente corto, invecchiante, e Viola non ci era più tornata. Come lui, così rigido e compassato, avesse potuto legarsi a quella donna rumorosa e sempliciotta, con pettegolezzi eterni sulle labbra — era un mistero. Viola non chiese. Temeva che al solo suono del nome «Stella» il suo mondo quieto, costruito con tanta fatica, crollasse definitivamente.

Divorziarono in silenzio, senza scenate né piatti rotti. Artur, sollevato da tanta arrendevolezza, le lasciò l’appartamento. Si prese la dacia e l’auto — la sua Stella era un’ortolana accanita e già tracciava sul quaderno schemi di future aiuole con varietà esotiche di pomodori. Viola odiava la dacia con tutta l’anima e non guidava. Sembrava non avesse perso nulla. Eppure vivere senza la persona che, credeva, non aveva mai amato davvero, si rivelò insopportabilmente difficile. O era l’abitudine — seconda natura — o non era più l’età per restare sola.

La figlia, Alisa, voleva prendere un volo da Vladivostok, ma Viola la dissuase. Non erano mai state vicine. Le telefonate si riducevano a prediche:
— Mamma, devi lavorare! Quanto puoi stare a casa?
— Mamma, guarda questo programma di riqualificazione per anziani! Studi e ti sistemi!
— Mamma, cos’è quel cappotto addosso? L’hai rubato alla guardarobiera del museo locale?

No, di questo Viola non aveva bisogno. Ma la figlia, per quanto bruscamente, aveva ragione. Lavorare era necessario. I soldi si scioglievano a velocità catastrofica. Artur non aveva mai voluto che lavorasse. Gli piaceva essere atteso a casa da un pranzo caldo e da una pulizia sterile — sua madre era chirurgo e l’aveva abituato così fin da bambino. E con Alisa Viola aveva passato anni a correre: danza, inglese, ripetizioni. E per cosa? La figlia ora danzava in qualche compagnia moderna, salendo sul palco mezza nuda. Se Viola l’avesse saputo, non avrebbe speso né forze né denaro.

Dal primo colloquio uscì certa che l’avrebbero presa. Dal quindicesimo — con l’amara certezza del contrario. Una donna stanca in coda a uno di questi colloqui si asciugò una lacrima avara e le consigliò: «Vada al centro per l’impiego. Magari lì almeno qualcosa salta fuori».

Il centro la accolse con pareti scolorite e odore di caffè scadente. La riceveva una giovane, Marina, con in volto un’apatia cosmica. Anche lei, a giudicare dal maglione comodo, doveva comprare vestiti nei reparti «taglie forti». Scorse distrattamente i documenti di Viola.

— Quindi dai ventiquattro anni non avete lavorato ufficialmente da nessuna parte? — nella voce c’era non tanto disprezzo, quanto stanchezza professionale per la disperazione quotidiana.

— E questo sarebbe vietato per legge? — s’infiammò Viola, sentendo macchie rosse salirle sul collo. — L’articolo per parassitismo, mi pare, l’hanno abolito!

La ragazza fece solo una risatina.
— E per formazione siete architetto… Sapete che in trent’anni in questo settore qualcosa è cambiato? Programmi, approcci, standard…

— Cosa volete insinuare? Che sono irrimediabilmente rimasta indietro? — Viola raddrizzò la schiena. — Per inciso, ho imparato a usare lo smartphone più in fretta di mia figlia! Lei ancora non sa ritoccare decentemente le foto!

La ragazza — Marina — posò il fascicolo e guardò Viola più attentamente, con un improvviso barlume d’interesse.
— Avete una figlia?
— Ma certo che ce l’ho! — ringhiò Viola.
— E quanti anni ha?
— Presto farà trenta. Ma che c’entra lei? Il lavoro serve a me, non a lei! Anche se… — la voce le tremò, soffocata dall’offesa. — Sapeste che lavoro fa… Vergogna! Ho sacrificato la vita per lei, ecco, trent’anni senza lavorare, e lei…

Marina chiuse di scatto il fascicolo. Il rumore rimbalzò nella stanza come un colpo.
— Allora, facciamo così. Mi chiamo Marina. E vi assumo io.

Viola la fissò sbalordita.
— Non vi capisco.
— Mi serve una persona che mi aiuti… a parlare con mia madre. — Marina lo disse con sfida, guardando Viola dritta negli occhi.
— E io che c’entro?
— C’entrate perché siete la sua copia! Uguale sputata! Lo psicologo mi ha detto che non risolverò i miei problemi finché non sistemerò il rapporto con mia madre. Ma come? Qualunque cosa faccia o dica — è sempre scontenta! Sempre critica! E allora ho pensato… Magari risponderete voi al posto mio? Con le parole giuste. Lei smetterà di martellarmi e io… io smetterò questo. — Si passò la mano, con odio, sul fianco florido. — Che ve ne pare?

Era così assurdo, ridicolo e umiliante che Viola sbuffò. Si alzò, raccolse con dignità i suoi documenti.
— Comincio a capire vostra madre. Una scemenza del genere non l’avevo mai sentita!

Aveva già afferrato la maniglia, quando qualcosa la fece voltare. Marina sedeva curva e tirava su col naso in modo infantile, inerme. Proprio così piangeva Alisa da bambina quando non riusciva ad allacciarsi le stringhe. Il cuore di Viola si strinse per un’improvvisa, acuta pietà.

— Va bene, — disse, girandosi. — Però, sia chiaro, a tutti dirò che ho trovato lavoro come psicologa. Dirò di aver fatto un corso di riqualificazione.

All’inizio era tutto goffo e complicato. Marina chiamava, leggeva i messaggi della madre: «Di nuovo mangi quella schifezza?», «Quando ti sposi?», «La figlia della vicina è già al terzo!». Viola dettava le risposte: «Mamma, apprezzo la tua premura, ma parliamone quando ci vediamo» oppure «Mi sento insicura quando dici così». Marina obiettava, urlava che non avrebbe funzionato. Ma, stanca di lottare, a volte cedeva e inviava qualcosa di intermedio. E — miracolo — la madre rispondeva in modo meno pungente. E in quei giorni Marina si concedeva solo una cena leggera.

Il sabato avevano chiamate obbligatorie di un’ora con la madre. Viola andava a casa di Marina. Lei metteva il telefono in vivavoce e Viola scriveva le risposte su un foglio. Il rapporto in effetti migliorava, sebbene Viola dovesse ammettere dentro di sé che la madre di Marina era una donna crudele. Sì, la ragazza aveva chili di troppo, ma è forse un motivo per tormentare la propria figlia? La povera ragazza già dopo ogni pasto correva in bagno per… Viola lo intuiva. Le faceva male per quell’anima sconosciuta e sola.

— E tuo padre? — chiese una volta Viola, immaginando la storia banale di un uomo andato con un’altra.

— È morto quando ero piccola, — rispose Marina, e i suoi occhi si fecero vuoti. — Da bambina ero così arrabbiata con lui. Pensavo ci avesse lasciate. Non capivo che la morte non si ferma. Allora eravamo alla fame, non c’era da mangiare. A volte mi sembra di non riuscire ancora a saziarmi, di voler recuperare quella fame d’infanzia.

La pietà per Marina divenne un grumo caldo e vivo nel petto di Viola. Aveva già trovato un lavoro normale — controllore in un piccolo cinema di periferia — ma continuava ad aiutare la ragazza. Dopo le chiamate del sabato bevevano tè con insipidi biscotti dietetici e chiacchieravano. Prima di sciocchezze, poi Marina cominciò a raccontare dei suoi amori e Viola, con sua sorpresa, di Artur e della sua Stella, della figlia ballerina.

— Posso raccontare tutto questo a mia madre? — rise un giorno Marina. — Che sappia che non sono l’unica ad avere problemi!

Fra loro nacque un’amicizia strana e fragile. E un giorno, davanti all’ennesima tazza di tè, Viola raccontò a Marina ciò di cui aveva taciuto per decenni. Di sua sorella.

— Eravamo inseparabili, non litigammo mai in vita nostra. Poi mi innamorai. Si chiamava Jaroslav. Alto, distinto, lavorava come meccanico al deposito locomotive. Le mani sempre unte di grasso, ma una risata contagiosa… E io allora ero una snob sciocca, figlia di professore. Gli dissi che non era alla mia altezza. Mia sorella, Anželika, diceva che stavo sbagliando. E io mi davo solo delle arie. Partii per l’estate da nonna e, al ritorno, loro già si frequentavano. Dissi a mia sorella che si stava rovinando la vita, le urlai contro e… me ne andai. Per sempre.

— In che senso, «per sempre»? — non capì Marina.
— Letterale. Ci vedemmo solo tre volte dopo: al funerale di papà, di mamma e dal notaio per l’eredità. Lui la portò a Kaluga. Io poco dopo sposai Artur.
— E non vi siete più sentite? — gli occhi di Marina erano tondi per lo stupore.
Viola deglutì il nodo spinoso che le saliva alla gola.
— È morta due anni fa.
— E non siete andata al funerale? — nella voce della ragazza non c’era rimprovero, ma bruciante curiosità.
— No, — sussurrò Viola. — Non ce l’ho fatta.

Marina scosse la testa e nel suo sguardo si lesse un’improvvisa saggezza adulta.
— Sapete… Mi sa che lo psicologo serva più a voi che a me. Dovete andare. Da lei. Sulla tomba. Parlarle. Io l’ho fatto, sulla tomba di mio padre. Ho detto tutto quello che avevo dentro. E sapete? È stato meglio. Davvero.

All’inizio Viola scacciò quel consiglio. Ma il pensiero, come una scheggia, le si conficcò nel cuore. Ricordava quella telefonata. La voce di Jaroslav, cupa, incrinata dal dolore: «Anželika non c’è più…». Le si intorpidirono le labbra e non riuscì a pronunciare una parola. O per lo shock e l’orrore, o perché il solo suono della sua voce, dopo tanti anni, le faceva battere il cuore all’impazzata. Ad Artur non disse nulla. Non andò al funerale. Non poteva vedere la sorella morta. Non poteva incontrare Jaroslav senza tradirsi, senza scoppiare a piangere contro il suo petto, come allora, nella lontana giovinezza.

L’indirizzo lo conosceva. Anželika aveva scritto per anni, infilando fotografie di sé e dei bambini… Viola ritagliava con cura Jaroslav dalle foto di gruppo e le nascondeva in una busta sul fondo di una scatola. Meno male che né Artur né Alisa l’avevano mai trovata. E se fosse morta? Qualcuno avrebbe trovato quegli scatti mutilati? Il pensiero era intollerabile.

Dopo essersi rigirata tutta la notte, sul far del mattino Viola si alzò e comprò un biglietto del treno per Kaluga. In fretta, prima di cambiare idea. E dopo si addormentò come un giusto.

Marina approvò la decisione.
— Forse maturerò anch’io per andare da mia madre non solo al telefono, — sorrise tristemente.

In treno Viola conobbe una coppia giovane che andava in viaggio di nozze. Erano pieni di felicità e le consigliarono dove alloggiare a Kaluga e come trovare il cimitero. La loro gioia era così sincera che per un po’ riscaldò anche la sua anima intirizzita.

L’albergo, però, si rivelò poco accogliente: stanzetta, finestre macchiate di mosche affacciate su una strada rumorosa. Be’, pazienza, si fermava poco. Tolto il cappotto e lavatosi il viso, Viola compose il numero dell’amministrazione del cimitero. La voce le tremava pronunciando il nome della sorella. Aveva l’amaro in bocca e gli occhi le bruciavano, come di fumo acre. Provava in mente il discorso: «Perdonami, Nasten’ka… Sono stata sciocca e superba… Ho letto tutte le tue lettere…». Le parole uscivano a fatica, si impigliavano nell’anima, restie a formare qualcosa di coerente.

Indossò un severo abito scuro (è pur sempre un cimitero) e notò con sorpresa che le stava largo. O per i patemi, o guardando Marina, aveva cominciato a mangiare meno ed era dimagrita. Nello specchio la fissava una donna elegante e sconosciuta dagli occhi malinconici.

Decise di comprare i fiori all’ingresso. Uscita dalla camera con una borsetta, percorse il corridoio e scese le scale scricchiolanti. Alla pesante porta d’ingresso s’imbatté in un uomo con una giacca a quadri. Si fece galantemente da parte, tenendo la porta.

— Viola? — suonò piano, quasi impalpabile.

A quella voce, la stessa che risuonava nei suoi sogni di ragazza, il cuore si fermò e poi riprese a battere così forte da toglierle il respiro. Se non fosse stato per le foto che inviava Anželika, non l’avrebbe riconosciuto. Jaroslav era molto cambiato, imbiancato, incurvato. Ma lui la riconobbe. Subito.

Lei rimase immobile, incapace di muoversi. Lui fece un passo avanti e la abbracciò forte, da uomo, stringendola al petto. Sapeva di vento fresco, trucioli di legno e qualcosa di ineffabilmente familiare, a lungo dimenticato — forse la giovinezza.

— Come mai sei qui? Perché non hai chiamato? — fece un passo indietro, tenendole le spalle, e la guardava senza staccare gli occhi, come temesse che sparisse.

— Io… volevo andare da Anželika, — articolò a fatica. — Non volevo disturbare nessuno. Ho deciso di fermarmi in albergo.

Jaroslav rise, e la sua risata era calda e profonda come un tempo.
— Ma questo è il mio albergo! Pare che il destino oggi ci abbia rimessi sulla stessa strada. Non volevo neppure venire, ma c’è stato un guasto, si è rotta una tubatura… Violka, come sono felice di vederti! Sei quasi uguale… Sai che facciamo? Così: ora dico di portarti un caffè. Con la panna, la prendi ancora con la panna, vero? Sbrigo in fretta le faccende e ti accompagno. E poi — da noi. No, non discutere! Stasera arrivano i ragazzi, non li hai mai visti. Farò trasferire le tue cose. Io stesso… io stesso volevo scriverti, ma temevo non rispondessi e…

Allargò le braccia e tacque. E Viola capì con chiarezza pungente che tutti quegli anni la sua offesa, il suo orgoglio, la sua paura non erano che il frutto della sua immaginazione, un enorme mito che aveva creato da sola. Sentì un dolore fisico, acuto, per il tempo perduto, per la sorella perduta, per quella tenerezza improvvisa, incredibile.

— Va bene, — disse piano. — Fa’ come dici.

Al cimitero Jaroslav si allontanò con discrezione. Viola non riuscì a pronunciare una parola. Guardò soltanto la fotografia della sorella sulla lapide — adulta, provata dalla vita, con occhi buoni come quelli della loro mamma. E le promise mentalmente che sarebbe tornata. Di certo.

La casa era accogliente, un po’ ingombra di cose da uomini, ma luminosa e calda. Si sentiva l’assenza di una mano femminile.

— I figli non vogliono vivere con te? — chiese Viola cercando di far suonare innocente la domanda.

— La nuora non ama le case indipendenti, e alla figlia è lontano dal lavoro, — sospirò. — Ma vengono a trovarmi. Grazie per aver chiesto. Io… ho sempre pensato che ci odiassi. Che mi ritenessi indegno di tua sorella. Ma ti giuro, le sono stato un buon marito. L’ho amata molto. E allora, da giovane… — s’interruppe e la guardò dritto. — Sognavo di sposare te. Sì, sì, non fare quella faccia. Eri la ragazza più bella del nostro istituto. E anche ora… ora sei molto bella.

Viola rimase lì, incapace di dire una parola. Tutto si capovolgeva. Lei temeva che lei e la sorella ridessero del suo amore non corrisposto. E loro… loro pensavano che li disprezzasse!

— Ti senti male? — si spaventò Jaroslav. — Siediti, ti porto dell’acqua.

Si affaccendò ed entrò in cucina. Viola si sedette sulla poltrona accanto al camino e chiuse gli occhi. Le rimbombava la testa. Non dolore, ma un sollievo strano, struggente.

All’improvviso qualcosa di caldo e morbido le sfiorò la gamba. Sussultò e aprì gli occhi. Ai suoi piedi si era acciambellato un grosso cane peloso. Guaiolava piano, posandole la testa pesante sulle ginocchia.

— Vega? — si stupì Jaroslav, fermandosi sulla porta con il bicchiere d’acqua. — È… è il suo cane. Dopo la morte di Anželika non lasciava avvicinare nessuno. Né me, né i ragazzi. Addirittura mordeva. Ma con te… al primo colpo.

Nella sua voce c’erano stupore e speranza mescolati. Viola allungò lentamente, con cautela, la mano e sfiorò la testa ruvida dell’animale. Il cane sospirò sollevato e socchiuse gli occhi.

In quel momento squillò il telefono. Viola voleva silenziarlo, ma vide il nome — Marina.
— Pronto?
— Violetta Vasil’evna? Sono Marina. Scusate se disturbo… Come state? Ho… è successa una cosa. — La voce della ragazza vibrava di emozione trattenuta. — Dopo la vostra partenza ho pensato: se voi avete trovato la forza di attraversare mezzo paese, perché io non posso andare da mia madre? Ho comprato una torta e sono andata. E ne ho mangiato solo una fetta! Lei, certo, ha cominciato: «mangi ancora, grassa, non ti sposerà nessuno». E quando le ho mostrato la foto di Mark ha detto che dagli occhi si vede — è un farabutto. Ma ho resistito! Non ho urlato, non ho pianto. La notte… ho ceduto. Sono andata in cucina, mi sono seduta per terra e ho cominciato a mangiare quella torta direttamente dalla scatola, col cucchiaio. Mangiavo e piangevo. È entrata mamma… Mi ha vista. Ha preso un secondo cucchiaio e si è seduta accanto. Mangiavamo in silenzio e piangevamo. Poi ha detto: «Avevo tanta paura che nascesse un maschio. Tuo padre… mi picchiava. Non lasciava segni, non potevo denunciarlo. Temevo che un figlio diventasse come lui. Sei nata tu… e ho avuto ancora più paura. Ho pensato che crescendo saresti diventata come me. Che ti avrebbero picchiata anche a te. Volevo per te un’altra vita. Capisci?». E io le ho detto che quando il mio ex mi ha chiamata grassa, gli ho mollato uno schiaffo e l’ho cacciato. E noi… siamo scoppiate a ridere entrambe! Poi ha detto: «Non sei grassa, sei bella, figlia mia». Abbiamo buttato quella torta. E io non voglio più litigare con lei. Scusate se parlo tanto… E voi come state?

Viola guardava la fotografia di Anželika in una semplice cornice di legno, il cane fiducioso appoggiato alla sua gamba. Sentiva alle spalle la presenza calda e solida di Jaroslav.

— Io sto bene, — disse piano ma con fermezza. — Mi sembra che adesso andrà tutto bene.

Posò il telefono sul tavolo e le sue dita si immersero di nuovo nel pelo caldo del cane. Fuori il sole tramontava, tingendo la stanza d’oro. Per la prima volta dopo lunghi anni, nella sua anima regnò il silenzio. Non il vuoto, ma un silenzio limpido e pacificante, pieno di speranza. Aveva trovato la sua lavanderia a secco per l’anima.

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