Il primo ricordo di Anna non era il calore delle mani materne, né il profumo dolce dei mandarini di Capodanno. Era pungente, gelido, un segno inciso sul rovescio dell’anima, una cicatrice destinata a dolere per tutta la vita. Aveva sei anni. Nel mondo ordinato e lustro fino alla sterilità dell’orfanotrofio, che odorava di pappa di mensa e di candeggina, fecero entrare un frammento di un altro universo: sua zia. Una donna dal volto scavato da una lotta eterna per la sopravvivenza guardava la piccola Anja con uno sguardo spaventato e colpevole.
A lungo fece scorrere il dito sui fogli, firmando dei documenti; poi, sospirando pesantemente, disse alla maestra con una voce in cui vibravano stanchezza autentica e disperazione: «Non posso, Mar’ja Ivanovna. Davvero, non posso. Ho già sei figli a casa, mio marito sparisce in due lavori. Come potrei sfamare un’altra bocca?». La frase «un’altra bocca da sfamare» suonò come una sentenza. Come un marchio. Anna non ne capiva fino in fondo il senso, ma con tutto il suo essere sentì un gelo di rifiuto. Era di troppo. Inutile. Un peso.
Fu in quell’istante, nel corridoio fresco, guardando la zia allontanarsi, che nel suo cuore di bambina nacque per la prima volta un sogno bruciante e totalizzante: il denaro. Non i tesori fiabeschi dei libri, non scrigni d’oro, ma monete di ferro tintinnanti e banconote fruscianti. Denaro che diventa uno scudo. Denaro che non permette più a nessuno di dire che sei «una bocca di troppo». Per lei i soldi erano sinonimo di libertà, dignità, diritto all’esistenza. Il diritto di respirare a pieni polmoni senza giustificarsi e senza scusarsi per il semplice fatto di essere viva.
Mentre gli altri bambini correvano nel cortile inondato di sole, giocando a guardie e ladri o rubacchiando mele alla vicina brontolona, Anna trovava rifugio nella piccola biblioteca dell’orfanotrofio, impregnata di polvere e di vecchie rilegature. I libri diventavano amici, maestri, guide verso altri mondi. Ingurgitava le pagine con avidità, credendo che la conoscenza fosse quella chiave magica che un giorno avrebbe aperto la porta fuori da quella vita grigia e umiliante. Le educatrici, vedendo un impegno così poco infantile, scuotevano la testa con un misto di pietà e incomprensione. «Ti farai male contro un muro, Annuška. Non si può saltare più in alto della propria testa. Fidati di me», le lanciava dietro la lavandaia zia Katja, rovesciando acqua saponata nel cortile. I bambini la prendevano in giro chiamandola “secchiona”, indicando i vestitini logori ma accuratamente rammendati. Anna però serrava le labbra e si tuffava nel libro. Ogni riga letta, ogni problema risolto era un mattone nel muro che costruiva tra sé e quel destino misero che le avevano apparecchiato.
Nell’immaginazione dipingeva scene vivide: eccola, elegante e sicura, studentessa di un prestigioso ateneo della capitale. Eccola nel suo ufficio con una grande finestra e, alle spalle, un diploma e il rispetto negli occhi dei colleghi. Costruiva castelli in aria con formule e citazioni, sperando che resistessero all’urto della dura realtà.
La realtà le crollò addosso il 9 giugno, subito dopo una festa di fine corso che somigliava più a un funerale. Lo Stato, con la sua generosità burocratica, le assegnò una stanza. Non un appartamento, no. Una stanza in una baracca marcia ai margini della città, dove al mattino i treni merci passavano rombando e facevano tremare le pareti fragili. Le pareti della sua “nuova casa” erano segnate da sinistre macchie verdognole di muffa e l’unica finestra impolverata dava su una triste recinzione di ondulato. L’aria sapeva costantemente di umidità, di sconforto e di disperazione.
Ma questo era ancora il meno. Senza conoscenze, senza soldi per ripetizioni o tangenti, tutte le porte delle università decenti si chiusero davanti a lei con un fracasso definitivo. Il massimo a cui poteva aspirare una figlia orfana di provincia era la scuola professionale locale, indirizzo sartoria o cucina. Quella prospettiva non le pareva un’uscita, ma un altro, ultimo girone dell’inferno. Una condanna a vita alla povertà, alla catena di montaggio, alla sopravvivenza sul filo.
Anna decise di lottare. Ideò un piano: lavorare un anno, risparmiare ogni kopek per i corsi di preparazione, studiare giorno e notte e l’anno seguente assaltare di nuovo le università. Ma il mondo sembrava essersi coalizzato contro di lei. I posti dove pagavano qualcosa di decente erano tutti occupati. Richiedevano esperienza, conoscenze, «aspetto gradevole» per fare la cameriera o la commessa. Le settimane diventavano mesi, le scadenze per le domande passarono, e persino la odiata scuola professionale sfumò. Una disperazione, simile a una bestiolina agile e viscida, cominciò a rosicchiarla dall’interno, a graffiarle l’anima. Per non morire di fame dovette calpestare gli ultimi resti dell’orgoglio. Andò in centro e si fece assumere come lavapiatti in un piccolo ma pretenzioso ristorante, il «Déjà Vu».
L’amministratore del ristorante, Viktor Pavlovich, era un uomo sui trent’anni, curato, con pettinatura perfetta e occhi freddi come trapani, capaci di valutare e umiliare con uno sguardo. La detestò dal primo momento. Scorrendo con gli occhi la sua scarna scheda, in cui alla voce «esperienza lavorativa» c’era un umiliante trattino, e all’«indirizzo» il numero di quella baracca, arricciò il naso, come se avesse colto l’odore della miseria.
— Vede, Voroncova — disse con un tono mellifluo e velenoso —, anche la lavapiatti è in un certo senso il biglietto da visita del locale. E lei ha, mi perdoni la franchezza, un aspetto non proprio… presentabile. La vedrei meglio in una mensa aziendale… — Fece una pausa eloquente, a significare che l’udienza era finita.
Anna si era già voltata mentalmente, pronta a scappare via bruciando di vergogna, quando la porta del minuscolo ufficio cigolò e sulla soglia apparve una donna anziana con un grembiule da cucina candido, benché consunto. Era Irina Petrovna, la chef e il “cardinale grigio” del locale. La sua parola contava lì più degli ordini pomposi di Viktor.
— Vitja, perché stai facendo arrossire la ragazza? — abbaiò senza preamboli. — In cucina è il finimondo, ho le mani fino ai gomiti nel sapone, e tu fai i salotti!
— Irina Petrovna, io… non è idonea… — cominciò a balbettare l’amministratore, ma lei troncò tutti i discorsi con un gesto della mano.
— È idonea! Ho detto! O vuoi che chiami adesso Sergej e gli chieda perché il suo amministratore manda via i nuovi quando i nostri si fanno due turni? Tra l’altro, si preoccupa della troppa rotazione…
Al nome del proprietario, un uomo dal carattere non facile che stravedeva per Irina Petrovna, il volto di Viktor Pavlovich si deformò in una maschera di servilismo e rabbia. Umiliato in pubblico, decise di sfogarsi immediatamente sulla ragazza indifesa.
— Bene — sibilò tra i denti. — Siete assunta. Ma! — Sollevò l’indice, e la voce divenne bassa e minacciosa. — Con periodo di prova. Un mese. E ricordate: la minima infrazione, la più piccola lamentela — e sarete fuori prima di capire cosa è successo. Io tengo d’occhio gli… ex allievi degli orfanotrofi con particolare attenzione.
Anna annuì in silenzio, senza alzare gli occhi, inghiottendo un amaro nodo di offesa. Aveva bisogno di quel lavoro come un annegato dell’aria. Irina Petrovna si rivelò una persona d’oro. Tra montagne infinite di piatti unti e padelle bruciate, seppe presto la sua triste storia e si commosse di una pietà sincera, quasi materna.
— Non badare a Vit’ka — la consolava, mescolando qualcosa in un grande calderone. — In sé non è cattivo ragazzo, ma è uno straordinario bastardo. Vuole mettersi in mostra con i capi e fa il pavone. Tu fai bene il tuo lavoro e andrà tutto a meraviglia.
Anna così fece. Arrivava prima di tutti, andava via dopo tutti, lucidava la sua postazione e i lavelli fino a farli brillare e cercava di essere invisibile, di dissolversi nello spazio pur di non incrociare lo sguardo rancoroso dell’amministratore. Sentiva fisicamente i suoi occhi spinosi e pieni d’odio dietro la schiena.
Un giorno Viktor Pavlovich era di riposo. L’atmosfera nel ristorante cambiò all’istante, come se qualcuno avesse disinnescato una bomba a orologeria. Sparì la tensione opprimente, i cuochi canticchiavano, le cameriere ridevano alla macchina del caffè scambiandosi pettegolezzi. Nel breve silenzio dopo il pranzo, una di loro, Ol’ga, una chiacchierona lentigginosa, fece cenno ad Anna.
— Anja, vieni da noi a bere un tè finché c’è calma. Non startene sola al tuo lavandino.
Il cuore di Anna sussultò per quell’attenzione inaspettata. Si sedette grata al tavolino d’angolo riservato al personale. Per la prima volta da quando lavorava lì, le avevano proposto di essere, anche solo per un minuto, parte di quel piccolo mondo. Era insolito, dolcemente piacevole e un po’ pauroso.
Proprio allora si affacciò dalla porta di servizio che dava sul cortiletto il giovane aiuto cuoco.
— Ragazze, è arrivato zio Misha — bisbigliò, come una parola d’ordine.
Zio Misha era una celebrità locale — un vagabondo quieto e innocuo, dall’aria filosofica, che tutti in zona conoscevano e, quando potevano, sfamavano. Ol’ga afferrò un piatto pulito e vi mise rapidamente gli avanzi del menù pranzo appena finito: un po’ di zuppa, purè con una polpetta, un’insalatina.
— Anja, glielo porti tu? — chiese. — Io ho già gente che entra, non posso staccarmi.
Anna accettò con gioia. Aveva un gran desiderio di fare qualcosa di buono, di sentirsi non un’emarginata ma parte di quella piccola confraternita di aiuto reciproco. Uscì nel cortile, abbagliato dal sole di mezzogiorno, e con un sorriso leggero, quasi felice, porse il piatto al vecchio dai capelli grigi, abbronzato dal vento, vestito con abiti consunti ma ordinati.
— Grazie, figliola — mormorò zio Misha, e nei suoi occhi balenò una gratitudine così sincera e profonda che ad Anna vennero le lacrime. — Che Dio ti benedica…
In quello stesso istante, come un’ombra uscita dall’inferno, alle sue spalle comparve Viktor Pavlovich. Avrebbe dovuto riposare, ma, a quanto pare, la sua anima nera lo aveva spinto lì per un’ispezione improvvisa.
— Che scena commovente — sibilò con un sarcasmo velenoso che gelava il sangue. — Non è forse lei la nostra novella benefattrice, Voroncova? Si permette di disporre di proprietà altrui, distribuendo prodotti a destra e a manca?
Anna impallidì. L’attimo di felicità si sbriciolò. Il primo pensiero fu di non fare il nome di Ol’ga.
— È… roba di ieri, Viktor Pavlovich — balbettò. — L’avremmo buttata…
— Di ieri? — Alzò teatralmente il sopracciglio, recitando. — Interessante. Bene, il costo di questo “di ieri”, un pranzo completo, lo scalerò dal suo già misero stipendio. E ricordi: se la vedo ancora incoraggiare questa feccia di barboni alla porta di un locale rispettabile — sarà licenziata senza soldi. È chiaro?
La trafiggeva con uno sguardo annientatore e, senza aspettare risposta, si voltò e rientrò con passo solenne. Anna rimase in mezzo al cortile polveroso, sentendo scendere lungo le guance lacrime brucianti d’umiliazione impotente. Zio Misha la guardava colpevole e smarrito, stringendo inerti quel fatidico piatto.
La sera, quando l’ondata principale di clienti si fu calmata, Ol’ga si avvicinò ad Anna stringendo i pugni per la propria impotenza. Aveva sentito tutto da dietro la porta e ora avrebbe voluto sprofondare.
— Anja, perdonami, tesoro, non pensavo che quella iena sarebbe spuntata oggi! — sussurrava, lanciando occhiate all’ufficio dell’amministratore. — Che gli vada di traverso!
— Non fa niente — rispose piano Anna, quasi senza voce, benché dentro le graffiassero i gatti. — Va tutto bene.
Ol’ga sospirò e, per cambiare discorso, condivise la grande notizia che agitava lo staff.
— Dicono che Sergej stia vendendo il «Déjà Vu». È già spuntato un acquirente. Tutti in panico: temono che il nuovo proprietario cacci via la squadra e porti i suoi. Per Irina Petrovna sarebbe la fine del mondo, dove va alla sua età?
Tacquero, ognuna persa nei suoi cupi pensieri. Per Anna perdere quel lavoro, pur umiliante e malpagato, significava ricadere a precipizio nella fossa di miseria da cui a stento era uscita. E lì, parlando di tagli e ultimi stipendi, fu colpita come da un fulmine.
— Oh — le sfuggì —. Non ho ancora fatto la carta per lo stipendio! Viktor Pavlovich disse di farla subito la prima settimana, ma me ne sono dimenticata…
Gli occhi di Ol’ga si spalancarono.
— Sul serio? Anja, quello ti chiude il libro paga senza di te e poi arrangiati a cercare i tuoi soldi! Come hai fatto?
Anna sorrise amaramente.
— E che importa? Su quella carta ci sarà sempre zero comunque. Che differenza fa se lo ricevo questo giovedì o il prossimo?
Eppure le parole dell’amica le misero ansia. Conoscendo il carattere vendicativo dell’amministratore, capiva che si sarebbe «dimenticato» volentieri di inserirla nel cedolino, lasciandola senza quei pochi spiccioli.
— Va bene — disse decisa. — Domattina, prima del turno, passo in banca. Faccio tutto al volo.
— Corri — annuì Ol’ga. — Con quel tiranno non ci si può rilassare. Orecchie tese.
Il mattino seguente Anna varcò per la prima volta la soglia di una grande banca. Una sala enorme, piena di luce morbida; aria fresca, odorante di denaro e lucidatura costosa; un mormorio lieve di numeri elettronici — tutto la intimidiva e affascinava. Rimase esitante all’ingresso, senza sapere a chi rivolgersi. Le si avvicinò un giovane in un abito impeccabile, con un sorriso gentile e informale. Sul bavero spiccava una targhetta: «Aleksandr. Manager».
— Buongiorno. Posso aiutarla? — chiese con voce vellutata.
— Sì, io… dovrei fare una carta. Per lo stipendio — mormorò Anna, sentendosi un topolino grigio in mezzo a quel luccichio.
Lui annuì e la accompagnò alla sua postazione — un tavolo ordinato con due monitor. La pratica richiese poco tempo. Aleksandr poneva domande calme e chiare, le dita correvano rapide sulla tastiera. La sua pacatezza e cordialità sciolsero pian piano il gelo dell’insicurezza nell’animo di Anna. Compilando il modulo, alzò per un attimo gli occhi e incrociò il suo sguardo. Non la guardava con cortesia di rito, ma con un interesse profondo e autentico.
— Mi perdoni l’indelicatezza — disse all’improvviso, arrossendo leggermente. — Ma lei ha… un sorriso incredibilmente sincero. L’ho visto quando è entrata. Ma c’è tanta tristezza dentro. Come se portasse sulle spalle un peso molto grande.
Anna arrossì fino alle orecchie. Nessuno le aveva mai fatto un complimento simile. Non sull’aspetto, ma su qualcosa di intimo, nascosto. Sentì il calore salirle al viso e abbassò in fretta lo sguardo, rifugiandosi nel modulo.
Anche Aleksandr, un po’ imbarazzato, tornò al lavoro. Inserì i suoi dati nel sistema e le sopracciglia gli si sollevarono per la sorpresa.
— Strano… — mormorò tra sé. — Il sistema indica che a suo nome è già aperto un conto nella nostra banca. Anzi, più d’uno.
— Impossibile — scosse la testa Anna. — È la prima volta che vengo qui. Dev’esserci un errore.
— L’ho pensato anch’io, ma… — ricontrollò più volte, confrontando i dati. — Anna Igorevna Voroncova? Questa data di nascita? Tutto combacia. Mi scusi, devo assentarmi un minuto.
Si allontanò, parlò con un collega anziano in abito scuro e, quando tornò, sul suo volto c’era un misto di stupore estremo e perplessità professionale.
— Anna Igorevna, la prego, venga con me. È molto importante.
La condusse oltre una porta discreta nel sancta sanctorum della banca — il caveau, con file di robuste cassette di sicurezza metalliche. L’aria era ancora più fresca e vibrava per il lavoro dei condizionatori. Aprendo una delle cassette, Aleksandr ne estrasse una cartellina di cartone, consumata dal tempo, e gliela porse con quasi reverente cautela.
Dentro, sotto una pellicola trasparente, giaceva una busta ingiallita, di carta spessa e pregiata. Sopra, con calligrafia netta ad inchiostro, era scritto: «Alla mia unica nipote, Anna. Consegnare personalmente».
Le dita di Anna divennero molli, indocili. Con fatica aprì la busta ed estrasse alcune pagine fitte di scrittura. Le lettere in certi punti colavano, la grafia cambiava — ora ferma e sicura, ora debole e tremante, come se la mano non reggesse la penna. Era una confessione. Una lettera del nonno che non aveva mai conosciuto.
Un tempo uomo influente, autoritario e incredibilmente ricco, decideva le sorti degli altri senza pensarci troppo. Scriveva di come, anni prima, accecato da una mostruosa superbia di ceto, avesse costretto il suo unico figlio, il padre di Anna, Igor’, a lasciare sua madre — una ragazza semplice, «non del loro ambiente». Il figlio, cresciuto nell’obbedienza cieca, ubbidì. Ma non ne trasse felicità. Un mese dopo il matrimonio con una sposa “adatta”, si schiantò con la sua auto sportiva. Tutti dissero che era un incidente, ma il nonno sapeva: suo figlio si era tolto la vita, schiacciato dal peso della viltà commessa.
La madre di Anna, rimasta sola, incinta e senza sostegno, non resse al dolore e alle pressioni. Scivolò nell’alcool, toccò il fondo e morì poco dopo il parto, lasciando la piccola Anja allo Stato. Il nonno, saputo della sua esistenza, si spezzò. Ma la superbia non era ancora del tutto vinta. Ingaggiò i migliori detective per rintracciare la nipote e, trovandola, non ebbe il coraggio di apparire nella sua vita, non seppe guardare negli occhi la bambina cui aveva spezzato il destino. Poi venne la malattia — un cancro all’ultimo stadio. Morendo in solitudine in appartamenti lussuosi, comprese finalmente l’orrore di ciò che aveva fatto. Il suo ultimo atto, di espiazione e pentimento, fu il testamento. Le lasciò tutto. Tutto il suo patrimonio inimmaginabile e colossale. Ogni rublo, ogni azione, ogni immobile.
Anna sedeva su una sedia, in mezzo al caveau freddo, fissando senza senso le righe tremanti. Il mondo si era capovolto. Tutta la sua vita, tutta la sua solitudine, tutto il suo dolore non erano una catena di sfortune casuali, ma il risultato di un errore mostruoso, di una tragedia antica di cui era la vittima. Non era un errore. Non era «una bocca di troppo». Aveva una famiglia che le era stata tolta dalla cieca superbia.
Aleksandr, dandole tempo con tatto, tornò con alcune stampe. Le posò in silenzio davanti a lei. Le cifre erano così lunghe che la mente le rifiutava. Non erano migliaia, neppure milioni. Era una fortuna che superava di gran lunga tutti i suoi sogni infantili di «sonaglio nel taschino». Bastava non per comprare un corso o un appartamento, ma una vita intera. Dieci vite. Il suo sogno agognato si era avverato con un fragore stordente, e al suo posto restava un vuoto risonante e pauroso. Aveva ottenuto tutto ciò che aveva desiderato con tanta furia. E ora si poneva una sola domanda: e adesso?
Fu proprio in quel silenzio assordante, in quel vuoto, che nacque un nuovo sogno. Audace, folle, disperato e davvero suo. Anna alzò lentamente la testa e guardò Aleksandr, che la osservava con silenziosa apprensione e partecipazione sincera.
— Aleksandr — la sua voce suonò sorprendentemente ferma e piana, senza l’ombra di un tempo —. Mi risponda con sincerità. Non ha mai sognato di dirigere un ristorante tutto suo?
Lui rimase di stucco, indietreggiando per la sorpresa. Poi rise piano, con un’ombra di malinconia.
— Sa, da bambino sì. — Guardò nel vuoto, come richiamando un ricordo caro. — Immaginavo un posto dove la gente non venisse solo a mangiare, ma a diventare più felice. Dove regnassero calore e intimità. Ma… — allargò le mani — la vita ha messo i paletti. Banca, mutuo, stabilità. I sogni sono rimasti sogni.
— E se le dicessi che possiamo riportare in vita i suoi sogni? — lo fissò Anna. — E al tempo stesso realizzarne uno mio.
Nei suoi occhi non c’era più traccia di tristezza o smarrimento. Vi ardeva un fuoco calmo, sicuro, quasi implacabile. Aveva deciso. Aleksandr rimase a guardare in silenzio per qualche secondo quella ragazza fragile, trasformata all’improvviso, e capì che parlava sul serio.
Anna si alzò. Ogni insicurezza, ogni postura compressa della lavapiatti umiliata si dissolse. La schiena si raddrizzò, lo sguardo divenne diretto e limpido. Sapeva con assoluta certezza cosa avrebbe fatto per prima.
Esattamente due giorni dopo un taxi si fermò davanti al «Déjà Vu». Anna scese dall’auto. Indossava un elegante tailleur pantalone blu scuro, perfettamente aderente, e decolleté leggere. Un trucco appena accennato metteva in risalto i tratti del viso, e i capelli erano raccolti in un’acconciatura semplice ma impeccabile. Ma non era l’abito costoso ad averla trasformata. Era qualcos’altro: un’aura di assoluta, incrollabile sicurezza in sé, una calma, autorevole dignità con cui teneva alta la testa e guardava il mondo a viso aperto.
Sulla soglia l’attendeva, come previsto, Viktor Pavlovich. Vedendola, il suo volto si contorse in una smorfia d’ira.
— Voroncova! — sibilò, senza badare ai modi. — Dov’è stata due giorni?! È licenziata per assenza ingiustificata! Non provi nemmeno a supplicare la liquidazione — ho già calcolato tutte le sue multe e sarà pure in debito con me!
Anna non lo degnò di risposta. Passò oltre con regale calma nella sala semivuota a quell’ora del mattino e occupò il tavolo migliore, accanto alla finestra.
— Ma che si crede?! — strillò lui, perdendo l’ultimo autocontrollo. — Si alzi subito e lasci il locale! Questo tavolo è per gli ospiti!
Anna girò lentamente il capo. Le labbra disegnavano quel sorriso sincero che Aleksandr aveva notato un tempo. Ma ora non vi era traccia di tristezza. Solo una fredda, d’acciaio sicurezza.
— Sa, Viktor Pavlovich — disse con voce bassa ma nitidissima, che si sentì nel silenzio calato —. Ho pensato a lungo a come spendere i miei primi soldi seri. E sa che cosa ho deciso? Ho comprato questo ristorante. E sa perché? Solo per un piacere: licenziarla di persona. È licenziato. Senza indennità e senza referenze. Spero che il prossimo lavoro sia… più presentabile.
In quel momento la porta principale si spalancò ed entrò Sergej, l’ex proprietario. Si diresse dritto al loro tavolo e, sorridendo a tutta la sala, annunciò ad alta voce agli usciti dalla cucina, camerieri e cuochi:
— Amici, colleghi! Permettetemi di presentarvi la nuova proprietaria del «Déjà Vu» — Anna Igorevna Voroncova! Siatele affezionati e rispettosi!
Il volto di Viktor Pavlovich divenne un autentico spettacolo shakespeariano. Passò dal rosso porpora della collera allo stupore violaceo fino a una pallida terra morta. Apriva e chiudeva la bocca, muovendo le labbra senza suono, come un pesce buttato a riva. Nessun suono usciva. Come se gli avessero tolto per sempre la parola.
Pochi minuti dopo entrò Aleksandr. Sergej lo presentò alla squadra come il nuovo direttore. E bisogna riconoscerglielo: si mise al lavoro con entusiasmo e intuito finissimi. Non solo cambiò radicalmente l’atmosfera del locale, rendendola davvero familiare e accogliente, ma aiutò Anna a elaborare un piano dettagliato per la sua formazione, ingaggiò i migliori tutor universitari.
Passavano sempre più tempo insieme. Si scoprì che il sogno comune del ristorante non era che il primo capitolo, il prologo di un’altra storia, ben più importante e splendida: la loro storia d’amore.
Anna, passata attraverso fango, miseria e umiliazioni, alla fine trovò non la ricchezza senz’anima che da bambina aveva bramato con furia, ma l’opera della sua vita, un amore vero e fedele e, soprattutto, — ritrovò e amò se stessa. Proprio quella che un tempo avevano chiamato «un’altra bocca da sfamare». E quella “bocca” ora imparava non solo a mangiare di gusto, ma a ridere, a gioire della vita e a dire parole d’amore.