«Conosci il tuo posto», disse mio figlio. Io risposi soltanto: «Prendo nota», e quando arrivò lo chef, a tavola calò il silenzio.

«Conosci il tuo posto», disse mio figlio. Io risposi soltanto: «Ne prendo nota», e quando arrivò lo chef, al tavolo calò il silenzio.

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«Non diamo porzioni extra». Furono esattamente queste le parole che mia nuora Marlene pronunciò mentre mi spingeva davanti un bicchiere d’acqua. Solo acqua. Mentre tutta la sua famiglia divorava aragosta fresca proprio sotto i miei occhi. Aragoste enormi, di quelle che costano 60 dollari l’una, con il burro fuso che luccicava sotto le luci del ristorante.

Non ebbe nemmeno la decenza di essere sottile. Lo fece davanti a tutti con quel sorriso finto che usa sempre quando vuole umiliare qualcuno senza sembrare la cattiva della storia. E quella non fu la parte peggiore. La parte peggiore fu vedere mio figlio Michael annuire, come se lei avesse appena detto qualcosa di ragionevole, di giusto.

— Dovresti conoscere il tuo posto, mamma — aggiunse, senza nemmeno guardarmi negli occhi.

Rimasi in silenzio, non perché non avessi parole. Ne avevo, eccome. Tantissime. Ma qualcosa dentro di me decise di trattenerle, di osservare, di aspettare. Così sorrisi appena e dissi con calma:

— Ne prendo nota.

Marlene sbatté le palpebre, confusa per un secondo. Credo che si aspettasse lacrime, scuse, magari una scenata. Invece non le diedi nulla di tutto questo: solo quelle due parole, “ne prendo nota”.

Lasciate che vi spieghi come sono arrivata fin qui. Come ho fatto a ritrovarmi seduta in uno dei ristoranti più esclusivi della città, a guardare la mia stessa famiglia divorare aragoste da 60 dollari mentre io avevo davanti un bicchiere d’acqua del rubinetto.

Perché questa storia non è cominciata stasera. È cominciata anni fa, quando decisi che essere madre significava sacrificare tutto. E io lo feci, eccome se lo feci.

Michael è il mio unico figlio. L’ho cresciuto da sola dopo che suo padre ci abbandonò quando lui aveva appena cinque anni. Per anni ho lavorato in tre posti diversi. Pulivo case. Servivo ai tavoli. Cucino nelle cucine degli altri. Tutto perché lui potesse avere ciò che io non avevo mai avuto: istruzione, opportunità, un futuro.

Gli ho pagato tutta l’università: ogni semestre, ogni libro, ogni caffè preso con gli amici mentre studiava. L’ho sostenuto quando decise di cambiare indirizzo due volte. L’ho sostenuto quando conobbe Marlene e mi disse che era la donna della sua vita. L’ho sostenuto perfino quando lei cominciò a guardarmi come se fossi un ostacolo nella sua perfetta vita da medio-alta borghesia.

Non ho mai chiesto nulla in cambio. Be’, non è del tutto vero. Ho chiesto rispetto. Ho chiesto di essere trattata come sua madre, non come una dipendente che aveva già finito il suo compito. Ma a quanto pare era chiedere troppo.

L’invito arrivò una settimana fa. Michael mi chiamò, cosa insolita, perché ultimamente mi mandava solo messaggi brevi e freddi tipo “tutto ok?” oppure “parliamo dopo”. La sua voce suonava stranamente gentile quando disse che lui e Marlene volevano invitarmi a cena “per ricucire”, disse.

— Ci siamo allontanati, mamma. Vogliamo sistemare le cose.

Quanto sono stata ingenua a credergli.

Mi vestii con il meglio che avevo: un abito grigio perla. Semplice ma elegante. Niente di vistoso. Non sono mai stata una che ama attirare l’attenzione. Mi sistemai i capelli. Mi misi un po’ di trucco. Volevo essere presentabile per mio figlio, dimostrargli che, anche se avevo 64 anni, ero ancora sua madre: la donna che aveva dato tutto per lui.

Quando arrivai al ristorante, erano già tutti seduti. Michael, Marlene e, con mia sorpresa, anche i suoi genitori. Quattro persone che mi aspettavano a un tavolo chiaramente apparecchiato per cinque. Mi salutarono con baci nell’aria, di quelli che non sfiorano la pelle. Marlene profumava di un’essenza costosa, di quelle che costano più di 200 dollari. Indossava un vestito beige impeccabile e gioielli talmente luccicanti da quasi accecarmi.

— Sei in ritardo, Helen — disse guardando il suo orologio d’oro.

Mi chiamò Helen, non “mamma”. Non lo fa mai. Solo Helen, come se fossimo amiche della stessa età, come se tra noi non ci fosse alcuna gerarchia familiare.

— C’era un traffico terribile — risposi, sedendomi sull’unica sedia vuota, quella d’angolo, quasi come se volessero nascondermi.

Il ristorante era magnifico: soffitti alti, lampadari di cristallo, tovaglie bianche immacolate. Il tipo di posto dove ogni piatto costa quanto alcune persone guadagnano in una settimana. Riconobbi alcuni clienti: imprenditori, politici locali, gente con soldi veri. Mi chiesi come Michael potesse permetterselo. Per quanto ne sapevo, il suo lavoro in quella società di consulenza pagava bene… ma non così bene.

Il cameriere si avvicinò con i menù: rilegati in pelle nera, senza prezzi. È sempre il segnale che tutto è scandalosamente caro. Marlene nemmeno aprì il suo. Schioccò le dita. Sì: schioccò letteralmente le dita e disse:

— Cinque aragoste Thermidor, quelle grandi, e una bottiglia del vostro miglior bianco.

— Quattro aragoste — la corresse Michael con dolcezza, lanciandomi un’occhiata di sbieco.

Marlene lo guardò confusa, poi seguì il suo sguardo verso di me. E allora sorrise. Quel sorriso. Lo stesso che usa quando sta per affondare il coltello.

— Ah, giusto — disse, come se si fosse appena ricordata che esistevo —. Quattro aragoste.

Si voltò verso il cameriere e aggiunse, alzando abbastanza la voce da sembrare casual, ma facendo in modo che tutti potessero sentire:

— Non diamo porzioni extra. Per lei solo acqua.

Il cameriere sbatté le palpebre, a disagio. Mi guardò, come in attesa che dicessi qualcosa, che ordinassi anch’io. Ma prima che potessi aprire bocca, Michael intervenne.

— È che mamma ha già mangiato prima di venire, vero?

Il suo tono era gentile ma fermo. Non era una domanda. Era un ordine travestito. Sentii qualcosa spezzarsi dentro di me. Non fu drammatico. Niente musica triste in sottofondo, niente rallenty. Solo un piccolo scricchiolio silenzioso, da qualche parte nel petto, dove un tempo c’era la speranza.

— Certo — dissi infine —. Solo acqua va bene.

Marlene sorrise soddisfatta e si appoggiò allo schienale. Il cameriere annuì e si allontanò in fretta, probabilmente sollevato di scappare da quella tensione. I genitori di Marlene sembravano non essersi accorti di nulla: erano troppo impegnati ad ammirare il locale, commentando quanto fosse esclusivo.

E così iniziò la cena. Be’, la loro cena. Io avevo soltanto il mio bicchiere d’acqua: chiaro, freddo, silenzioso… esattamente come, a quanto pare, avrei dovuto essere io.

Le aragoste arrivarono dieci minuti dopo. Quattro piatti enormi e fumanti, con quell’aroma di burro e erbe che riempì tutto il tavolo. Il cameriere li posò con cura davanti a ognuno di loro: Marlene, Michael e i suoi genitori, che da quando ero arrivata non mi avevano rivolto una parola. Neanche un “ciao”, neanche un “come stai”. Niente. Era come se fossi invisibile… o peggio, come se fossi parte dell’arredamento.

Marlene fu la prima a rompere il guscio della sua aragosta. Il crack risuonò nel silenzio imbarazzante che si era creato. Prese un pezzo generoso di carne bianca, lo immerse nel burro fuso e se lo portò alla bocca con esasperante lentezza. Chiuse gli occhi, come se stesse assaggiando qualcosa di divino. Teatrale. Lei era sempre così: teatrale.

— Squisito — mormorò con delicatezza, tamponandosi gli angoli della bocca con il tovagliolo —. Assolutamente squisito. Questo posto non delude mai.

Sua madre annuì entusiasta.

— È il miglior ristorante della città, senza dubbio. Così esclusivo, così raffinato.

Anche Michael iniziò a mangiare, ma notai che evitava di guardarmi. Teneva gli occhi incollati al piatto, concentrato a smontare l’aragosta come se fosse il compito più importante del mondo. Codardo. Mio figlio, l’uomo che avevo cresciuto per essere coraggioso, per difendere ciò che è giusto, era diventato un codardo.

Io rimasi seduta, le mani in grembo, a osservare. Il mio bicchiere d’acqua era ancora lì, intatto. Non avevo nemmeno voglia di berlo. Non era questione di sete. Era questione di dignità. E in quel momento sentii che me ne avevano strappata via anche l’ultima briciola.

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