Non alzare la voce con me! Non sono il tuo giocattolo da far scattare al primo richiamo e soddisfare i tuoi capricci.

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— Dasha! Dashun’ka! Portaci due birre fredde e qualcosa da sgranocchiare a me e a Vadim! — gridò a gran voce Oleg dalla stanza, sovrastando la voce del telecronista della partita.

Dasha sospirò. Era appena entrata in casa, ancora con il soprabito addosso, non aveva nemmeno fatto in tempo a slacciarsi le scarpe dopo una giornata di lavoro infernale. Dodici ore in ospedale, tre operazioni d’urgenza, corse continue tra i reparti e la rianimazione — tutto ciò l’aveva svuotata fino all’ultima goccia. Desiderava soltanto una cosa: fare una doccia, bere un tè e sprofondare nel letto.

— Oleg, sono appena tornata dal turno, — rispose, entrando in cucina e accendendo il bollitore. — La birra è in frigorifero, e gli stuzzichini sono nella credenza sopra il microonde.

Si appoggiò su uno sgabello, massaggiandosi le tempie doloranti. Una tazza di tè caldo, un breve respiro, poi la doccia — e forse avrebbe potuto dimenticare tutto, almeno per qualche ora.

— Dasha! — riecheggiò un nuovo richiamo dalla sala, con una punta d’irritazione nella voce. — Dove sei? Muoviti! È una partita importante!

— Su, Dashka! — rincarò Vadim, ospite fisso dell’appartamento e migliore amico di Oleg. — Non lasciarci così, adesso!

Dasha chiuse gli occhi, trattenendo a stento l’irritazione. «Conta fino a dieci», si ripeteva. Ma la stanchezza aveva il sopravvento — la sua pazienza si assottigliava ad ogni secondo.

Si raddrizzò, uscì dalla cucina e si fermò nell’architrave della porta:

— Oleg, oggi ho lavorato dodici ore. Non ho né la forza né la voglia di correre dietro a voi. Il frigorifero è qui vicino — puoi servirtene da solo.

Lui continuava a fissare lo schermo, dove i calciatori rincorrevano il pallone.

— Ma cosa dici? — fece con una mano. — Tanto stavi seduta in cucina. Che ti costa?

— Ne sono uscita, — rispose lei, con la voce calma ma tesa. — E poi… perché dovrei servire voi? Siete mica i miei pazienti.

Finalmente Oleg si voltò, sgranando gli occhi.

— E come ti permetti? — la sfidò. — Tu sei a casa tutto il giorno, io no. Perché dovrei assecondare i tuoi comandi?

— Non hai chiesto, hai ordinato, — tagliò corto Dasha. — Come se fossi qui solo per farlo.

Il televisore annunciò un gol con entusiasmo, il pubblico applaudì. Vadim e Oleg si immersero nella visione, ignorandola completamente. Fu la goccia che fece traboccare il vaso.

Dasha si avvicinò e spense il televisore con un solo gesto.

— Ehi! — balzò in piedi Oleg. — Che diavolo fai?!

— Ti riporto alla realtà, — rispose lei con freddezza, fissandolo negli occhi. — Mi pare ti sia completamente dimenticato di cos’è una famiglia e di come si parla a tua moglie.

— Ma ti rendi conto di quello che hai fatto?! — alzò la voce lui. — Era la partita più importante della stagione! L’aspettavo da una settimana!

— Io aspettavo che tu trovassi finalmente un lavoro, — ribatté Dasha con fermezza. — Ma a quanto pare il calcio per te è più importante di tutto.

— Ah, ecco che comincia, — brontolò Vadim, lasciandosi cadere sul divano. — Le donne trovano sempre un pretesto.

— Zitto, Vadim, — lo fulminò Dasha.

— Dasha! — Oleg urlò. — Non dimenticarti! Io sono il capo famiglia, ho il diritto di dire quello che voglio!

— Il capo famiglia? — rise amaramente lei. — Quando è stata l’ultima volta che hai portato uno stipendio a casa? Un mese fa? Due? Io pago l’affitto, le bollette, la spesa. E tu? Resti sul divano, ti bevi le birre e pretendi di essere servito?

— Sto cercando lavoro! — esplose Oleg, ansimando per la rabbia. — Pensi che sia facile per me? Invio curriculum ogni giorno, vado ai colloqui!

— E intanto trovi il tempo di guardare una partita dopo l’altra con Vadim? — scosse il capo Dasha. — Senti, Oleg, tu non cerchi davvero lavoro. Aspetti l’offerta perfetta: molti soldi, nessuna responsabilità. Nel frattempo pretendi che sia io a fare tutto.

— Ma capisci cosa si prova ad essere disoccupato?! — si agitò lui per la stanza, gesticolando. — Ho la depressione! Ho bisogno di supporto! E tu invece mi schiacci!

— Supporto? — Dasha scoppiò in una risata secca, senza alcuna gioia. — Va bene. Ecco il mio supporto: smettila di comportarti da bambino a cui devono tutto. Parti dal basso — trova un lavoro qualsiasi. Non aspettarti subito la poltrona da direttore. E finché resti qui, almeno non crearmi altri problemi.

— Quali problemi? — Oleg si fermò davanti a lei. — Sto in casa, non ti disturbo! Che ti ho fatto?

— Mi disturbi! — alzò la voce Dasha. — Mi disturbi quando provo a riposare dopo il turno, mi disturbi quando cerco di dormire perché torno morta di stanchezza. Mi disturbi la vita, perché devo pensare a te oltre che a me. E tu? Pensavi solo al tuo benessere.

— Oh, piantala, — intervenne Vadim, cercando di calmare gli animi. — Tutti gli uomini sono così. È normale.

— Vadim, — lo redarguì Dasha, — se non tacchi adesso, ti caccio via io. Hai capito? Dalla mia casa. Mia. Proprio così. Perché la pago io, lavoro io per farvi stare comodi qui a bere la birra. Né tu né mio marito.

— Dasha! — urlò ancora Oleg. — Non puoi cacciare via i miei amici!

— Posso eccome, — rispose lei senza scomporsi. — Questa è casa mia. E finché vivi a mie spese, giocherai secondo le mie regole.

Vadim si alzò lentamente. Era la prima volta che vedeva Dasha così: raccolta, sicura, glaciale. Di solito dolce e gentile, quella sera sembrava un’altra.

— Oleg, forse è meglio che me ne vada, — disse lui con cautela. — Non voglio farvi litigare per colpa mia.

— Non ti muovi da qui! — lo afferrò Oleg per la spalla. — Questa è casa mia, decido io chi resta!

— No, Oleg, — il tono di Dasha era calmo ma indiscutibile. — Non è casa tua. È il mio appartamento, che pago io. O lui se ne va da solo, o chiamo la polizia. A voi la scelta.

Vadim si liberò delicatamente:

— Va bene, amico, me ne vado. Vedremo un’altra volta la partita.

— Vigliacco, — gli sibilò Oleg voltandogli le spalle. — Solo un vigliacco.

— No, — sorrise amaro Vadim mentre indossava il giubbotto. — So scegliere quando andarsene.

Aprì la porta, fece un cenno d’addio con lo sguardo e uscì lasciando una scia di tensione alle sue spalle.

— Oleg, chiamami domani. Quando sarà tutto più calmo.

Senza aggiungere altro stette la porta sul chiavistello. I coniugi restarono soli. Il silenzio in sala era denso e pesante, come un cielo carico di temporale. Oleg fissava Dasha con evidente irritazione, lei rimaneva immobile, in piedi, con lo sguardo deciso, come se tra loro si fosse levinata una barriera invisibile.

— Allora, soddisfatta? — ringhiò lui tra i denti. — Mi hai umiliato davanti all’amico? Era ciò che volevi?

— No, — scosse la testa Dasha. — Voglio che tu capisca: non può andare avanti così. Qualcosa deve cambiare, altrimenti ci perderemo.

Oleg si girò bruscamente, andò al divano, afferrò il telecomando e riaccese la televisione. La partita era ancora in corso, ma il calcio era l’ultimo dei suoi pensieri. Alzò il volume, voltandosi spudoratamente dall’altra parte — come per dire che la conversazione era finita.

— Davvero? — Dasha si avvicinò e spense di nuovo lo schermo. — Pensi di risolvere i problemi così? Facendo finta che non esistano?

— Quali problemi? — esplose Oleg, il volto contorto dalla rabbia. — L’unico problema qui sei tu! Con le tue critiche continue! Non posso nemmeno bere una birra con un amico? Non posso riposare un po’?

— Puoi, — rispose lei con calma. — Ma non a mie spese, non quando torno distrutta. E non pretendendo che io serva ogni tua voglia.

— Basta! — sbottò irritato, agitando una mano. — Ho solo chiesto una birra!

— No, Oleg, — scosse di nuovo la testa Dasha. — Non hai chiesto, hai comandato. Hai urlato come se fossi la tua cameriera. E non è la prima volta.

Si fece avanti, lui serrò i pugni istintivamente:

— Sei diventata insopportabile! Non ti va mai bene nulla! Sto a casa — sbagliato; porto amici — sbagliato! Cosa vuoi, dunque?

— Voglio un marito, — disse Dasha con voce ferma, restando dritta. — Non un bambino da accudire. Voglio un partner che sia al mio fianco, non contro di me. Che rispetti il mio lavoro, i miei sentimenti, i miei confini.

— Ti rispetto! — urlò lui. — Ho sempre rispettato!

— No, — lei sorrise amaramente. — Dai tutto per scontato. Pensi sia normale che io lavori fino allo stremo, paghi le bollette, cucini, pulisca, e poi corra a servirti la birra. E se dico di essere stanca — mi urli. Questo non è rispetto, Oleg.

Per un istante lui sollevò la mano, poi la lasciò cadere. Dasha non batté ciglio:

— Se osi alzare le mani — te ne andrai. Per sempre.

Oleg abbassò la mano, respirando affannoso. Nei suoi occhi comparve un lampo di paura:

— Davvero mi cacceresti?

— Sì, — rispose lei brevemente. — Non permetterò mai di vivere nel terrore. Per nessuno.

Si fissarono, separati da un abisso che ormai non si poteva più ignorare. Oleg distolse per primo lo sguardo:

— E adesso? Vuoi il divorzio?

— Voglio che tu cambi, — sospirò Dasha. — Ma non so se ne sei capace.

— E se trovassi un lavoro? Se iniziassi ad aiutare? — la sua voce tradiva speranza. — Basterebbe?

— No, — scosse ancora la testa Dasha. — Non è solo una questione di lavoro o di compiti. È questione di rispetto, Oleg. Di come mi tratti, di come parli con me.

Si voltò verso la finestra, osservando le luci della città:

— Sono così stanca. Di tutto. Dei litigi, del tuo atteggiamento, del fatto di sobbarcarmi tutto da sola. A volte mi chiedo: perché sono qui? Cosa ho ottenuto in tutti questi anni?

Oleg rimase in silenzio. Era la prima volta che la vedeva così — non solo arrabbiata o stanca, ma spezzata dentro. E per un attimo comprese che aveva ragione.

— Non voglio perderti, — disse infine con voce bassa.

— Io invece non voglio perdermi, — rispose Dasha senza voltarsi. — Non voglio diventare una donna che ha paura di parlare. Non voglio tornare ogni sera in una casa dove non mi sento apprezzata.

Si voltò verso di lui:

— Hai una scelta, Oleg. O cambi davvero — trovi un lavoro, inizi a rispettarmi, smetti di comandare. Oppure ci separiamo. Adesso.

— Adesso? — lui la guardò incredulo.

— Sì, — lei fece un cenno. — Non posso più continuare così. E non lo farò.

Oleg si lasciò cadere sul divano, nascondendo il volto nella mano. Solo allora capì che rischiava di perderla, davvero. E l’idea lo spaventò più di tutto.

— Cercherò di cambiare, — disse quasi sussurrando. — Promesso.

— Non promettere, — gli rispose Dasha, scuotendo la testa. — Dimostralo. Con i fatti. Di parole ne ho sentite fin troppe.

Si avviò verso la camera da letto, ma si fermò sulla soglia:

— E ricordatelo, Oleg. Non osare mai più urlarmi contro. Non sono una bambina e non diventerò la tua serva. Mai.

La porta si chiuse. La stanza rimase in un silenzio irreale. Oleg, seduto sul divano, non riusciva a muoversi né a parlare. Sapeva che, quella sera, qualcosa si era spezzato. E che ora dipendeva solo da lui decidere se fosse l’inizio di un nuovo percorso… o la fine della loro storia.

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