Una tranquilla giornata autunnale, intrisa d’oro dalle foglie cadenti e dal fresco dell’inverno in arrivo, segnò l’inizio di una storia incredibile — la storia in cui i destini di due persone, divise dall’età, dal tempo e dalle strade della vita, si fusero in un unico istante, pieno di senso, fiducia e miracolo. Non era solo un giorno. Era un punto di svolta, dopo il quale nessuno dei due sarebbe più stato lo stesso.
Maria Andreevna, novantaseienne, fragile come una foglia d’autunno, ma con occhi in cui ardeva ancora il fuoco di una forza passata, camminava lungo un sentiero stretto, appoggiandosi a un bastone di legno scuro. Il suo maglione bordeaux, come una goccia di vino sullo sfondo grigio della natura che sfioriva, spiccava nella tavolozza malinconica dell’autunno. Non camminava per caso. Camminava incontro al destino.
Nel cortile di una casa abbandonata, alla periferia di Jaroslavl’, sotto la tettoia di una vecchia baracca, sedeva un uomo. La sua figura si perdeva nelle ombre, ma i suoi occhi — stanchi, ma vivi — osservavano il mondo, come cercando di capire se vi fosse ancora posto per lui. Era Il’ja Karpov. Un tempo muratore, padre, soldato — ora era diventato parte dell’ombra cittadina, uno di quelli che il mondo preferisce non notare. I suoi vestiti erano logori, la barba incolta, le mani segnate da cicatrici e calli. Tremava dal freddo, stringendosi le ginocchia al petto, come se cercasse di scaldare non solo il corpo, ma anche l’anima.
— Non sembri una persona fatta per vivere in strada, — disse una voce calma, ma così forte che Il’ja sobbalzò.
Alzò gli occhi. Davanti a lui stava una donna, che sembrava troppo fragile per avere una voce tanto sicura. Nella mano teneva un sacchetto di plastica — un panino e una bottiglia d’acqua. Un gesto semplice. Ma in quel gesto c’era più calore che in tutte le parole che Il’ja aveva sentito negli ultimi anni.
— Grazie… — mormorò, sentendo stringersi qualcosa dentro di sé. La gente da tempo aveva smesso di guardarlo. Passavano accanto a lui come a un bidone della spazzatura, come a qualcosa di inutile. Ma lei — lei lo guardava. E lo vedeva.
— Io sono Maria. Maria Andreevna, — si presentò, sedendosi sulla panchina accanto a lui, nonostante il dolore alle articolazioni. — E tu?
— Il’ja Karpov, — rispose lui, come se si presentasse per la prima volta dopo tanto tempo.
— Di solito non parlo con gli sconosciuti, — disse lei con un leggero sorriso. — Ma in te c’è qualcosa… Mi ricordi una persona. Mio marito. Nikolaj.
Il’ja rimase in silenzio. Non sapeva cosa dire. Nella sua vita non c’era posto per ricordi d’amore, di casa, di famiglia. Ma in quel momento, sotto la pioggerellina, tra le foglie autunnali e il silenzio che avvolgeva la città come una coperta, sentì all’improvviso — che lo stavano ascoltando. Davvero.
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— Ho servito nell’esercito, — gli sfuggì, come da una profondità dove regnava da tempo il silenzio. — Poi ho costruito case. Con le mie mani. E poi… tutto è andato storto. Un debito — e un altro. Debiti, debiti… Lo sfratto. L’incendio nell’ostello. E ora eccomi qui.
Maria non batté ciglio. Non sospirò con pietà. Non distolse lo sguardo. Annui soltanto, come se avesse capito tutto — non solo le parole, ma anche ciò che stava in mezzo.
— Anche il mio Nikolaj era un muratore, — disse lei. — Costruì una casa oltre le colline. In legno, con un ampio portico e finestre rivolte al tramonto. Eresse ogni trave con le proprie mani. Dopo la sua morte, nell’88… non ebbi più la forza di tornarci. Avevo paura. Mi sembrava che, varcando quella soglia, mi sarei frantumata in mille pezzi. La casa rimase vuota. Passarono gli anni. Il legno marciva. Il vento fischiava tra le fessure. Pensavo — che fosse già polvere.
Il’ja la guardò. E improvvisamente, come se ricordasse che aveva ancora mani, che poteva ancora costruire, ricostruire, disse:
— Potrei aggiustarla. Se è ancora in piedi. Ho le mani. E il tempo.
Maria sorrise — per la prima volta dopo tanto tempo.
— Ci saranno topi, muffa, i pavimenti saranno crollati… Ma… forse.
Rimasero seduti in silenzio. La pioggia batteva sul tetto, le foglie frusciavano sotto i piedi. E in quel silenzio c’erano più parole che in una conversazione di un’ora.
— Domani, alla stessa ora, — disse Maria alzandosi.
Il’ja annuì. Non sapeva perché, ma venne. E tornò ancora. E ancora.
Passarono mesi. La casa si trasformò. Un portico solido, un nuovo tetto di metallo, aiuole fiorite davanti all’ingresso. Dentro — calore, luce, vita. Sul vecchio buffet, in una cornice — due anelli e una targhetta: «L’amore non scompare, mette radici».
E a volte, quando il sole tramontava oltre le colline e le ombre si allungavano, Il’ja sedeva sul portico, nella vecchia sedia a dondolo, e sentiva — accanto qualcuno si dondolava con lui. Un vento leggero, come un respiro. E un silenzio, pieno di voci del passato.