— Ho trasferito tutto. Non ci appartiene più niente.
Oleh buttò fuori quella frase con la stessa noncuranza con cui, anni fa, gettava le chiavi dell’auto sul mobiletto dell’ingresso.
Non mi degnò nemmeno di uno sguardo, mentre si slacciava la costosa cravatta — un regalo mio per l’ultimo anniversario.
Rimasi immobile con il piatto in mano. Non per lo shock. Ma per quella strana sensazione risonante, simile al tremito di una corda tesa.
Dieci anni. Dieci lunghi anni avevo atteso qualcosa del genere. Dieci anni durante i quali, come un ragno, avevo tessuto la mia tela nel cuore stesso della sua azienda, intrecciando ai noiosi report finanziari i fili della mia vendetta.
— Cosa intendi per “tutto”, Oleh? — la mia voce suonò pericolosamente calma, senza il minimo tremito. Posai lentamente il piatto sul tavolo. La porcellana tintinnò piano contro il rovere.
Finalmente si voltò. Nei suoi occhi brillava una malcelata soddisfazione e un leggero fastidio per la mia gelida compostezza. Aspettava lacrime, isteriche urla, maledizioni. Ma io non avevo alcuna intenzione di dargli quella soddisfazione.
— La casa, l’azienda, tutti i conti. Tutti gli attivi, Anja — pronunciò con gusto. — Comincio una nuova vita. Da zero.
— Con Katja?
Il suo volto si irrigidì per un istante. Non immaginava che io sapessi. Gli uomini sanno essere così ingenui.
Credono davvero che una donna che tiene i conti di una società multimilionaria non noti le “spese di rappresentanza” regolari pari allo stipendio annuo di un top manager.
— Non sono affari tuoi — tagliò corto. — Ti lascio la tua macchina. E ti pago un appartamento in affitto per qualche mese, finché non ti sistemi. Non sono un mostro.
Sorrise generosamente. Il sorriso di un predatore sazio, convinto di aver spinto la preda all’angolo e di potersi ora divertire con lei.
Mi avvicinai al tavolo, tirai fuori una sedia e mi sedetti. Intrecciai le mani, fissandolo negli occhi.
— Quindi tutto ciò che abbiamo costruito in quindici anni, tu l’hai semplicemente regalato a un’altra donna?
— Questo è business, Anja, tu non puoi capire! — iniziò a infiammarsi, il viso chiazzato di macchie rosse. — È un investimento nel mio futuro! Nella mia tranquillità!
Nel suo. Non nel nostro. Mi aveva cancellata dall’equazione con tanta facilità.
— Capisco — annuii. — Sono pur sempre una contabile, ricordi? Capisco bene gli investimenti. Soprattutto quelli ad alto rischio.
Lo guardavo senza dolore, senza rancore. Solo con un freddo, cristallino calcolo.
Non sapeva che da dieci anni preparavo la mia sorpresa. Da quando, la prima volta, trovai sul suo telefono un messaggio: “Ti aspetto, micina”. Allora non feci scenate.
Aprii semplicemente un nuovo file sul computer di lavoro e lo chiamai “Fondo di riserva”.
— Hai firmato l’atto di donazione della tua quota nel capitale sociale? — chiesi con tono professionale, come se parlassi di un normale premio trimestrale.
— Che te ne importa? — ringhiò. — È finita! Prepara le tue cose!
— Giusto curiosità — accennai un sorriso. — Ti ricordi quel punto aggiuntivo nello statuto che inserimmo nel 2012? Quando ampliavamo l’attività.
Quello sull’alienazione degli attivi a terzi senza il consenso notarile di tutti i soci?
Oleh rimase di sasso. Il suo sorrisetto tronfio cominciò a scivolargli via dal volto. Non ricordava. Ovviamente.
Non aveva mai guardato davvero i documenti che gli mettevo sotto il naso. “Anja, va tutto bene? Dai qua, firmo.”
Firmava tutto, certo della mia cieca devozione e pedanteria professionale. E aveva ragione. Ero pedante. Fino all’ultima virgola.
— Che assurdità stai dicendo? — rise nervosamente, ma la risata uscì roca. — Quale punto? Non abbiamo mai aggiunto nulla del genere.
— “Noi” siamo tu ed io. Fondatori della S.r.l. “Orizzonte”. Cinquanta e cinquanta. Articolo 7.4, comma “b”. Qualsiasi operazione di trasferimento di quote, sia vendita che donazione, è nulla senza il consenso scritto e notarile dell’altro socio.
Cioè mio. Insistetti io per quel punto, ricordi? Dissi che ci avrebbe protetto da un’acquisizione ostile. Tu ridesti e mi chiamasti paranoica.
Parlavo piano, quasi annoiata, come spiegando le tabelline a un bambino. Ogni parola cadeva nello spazio vuoto della sua incomprensione.