Le piastrelle bianche sul soffitto si dissolvono davanti ai suoi occhi, come se fossero state lavate via dall’acqua. La luce è troppo accecante — come se un potente proiettore fosse puntato direttamente sul suo viso. Rita cerca di muoversi, ma il corpo non risponde. Le palpebre sono incredibilmente pesanti, come tendoni di piombo. Sbatté le palpebre, una, due volte, cercando di mettere a fuoco lo sguardo. I suoni le giungono attutiti, come attraverso uno spesso velo d’acqua: ovattati, distorti. Da qualche parte vicino un monitor emette un bip regolare, e quel suono, stranamente, la rassicura.
Quanto tempo è rimasta così? Minuti? Ore? Rita non sa dirlo — il tempo ha perso i suoi confini, è diventato liquido, plastico. Oscilla tra luce e buio, ora sprofondando nell’oblio, ora riemergendo nella coscienza. Improvvisamente, una voce squarcia il silenzio:
— Sta migliorando. Il medico dice che ci sono dei progressi.
È Maxim, suo marito. La sua voce suona stanca, spezzata. Rita vorrebbe chiamarlo, ma le labbra non le ubbidiscono. Rimane prigioniera di sé stessa, un’osservatrice muta di quel che accade.
— Non ce la faccio più, Anja. Venire qui ogni giorno a vederla così… è devastante.
«Anja?» Quel nome fa clic in un angolo della memoria. È la collega di Maxim nello studio di architettura. Alta, bionda, con occhi azzurri e freddi, che lui a volte portava ai ricevimenti aziendali.
— Ti capisco — risponde dolcemente la donna — ma non devi sentirti in colpa. L’incidente… nessuno lo prevedeva.
«Incidente». La parola deflagra nel suo cervello come una scossa elettrica. Brandelli di ricordi sfocati: strada bagnata, stridio di freni, fari che fendono la notte, il metallo che strappa. Poi — oscurità.
— Dicono che, anche se uscisse dal coma, potrebbe restare… diversa — la voce di Maxim trema. — Forse con danni cerebrali. Potrebbe non riconoscermi, dimenticare la nostra vita insieme.
— Guardami, Max — interviene Anja, con tono calmo ma risoluto. — Non puoi aspettare per sempre. Sono passati sei mesi. È ora di pensare anche a te.
Sei mesi. Quella cifra colpisce Rita come un pugno. Metà della vita. Tempo trascorso senza di lei.
— Lo so — sospira lui. — Ma sembra un tradimento.
— Non stai tradendo nessuno — ribatte Anja. — Stai solo continuando a vivere. E va bene così. Rita capirebbe.
«No!» urla dentro di sé Rita — «Non capirebbe! Come puoi programmare una nuova vita mentre io lotto per ogni respiro?»
Ma la rabbia lascia spazio all’amara consapevolezza: sei mesi sono davvero tanto. Per lei il tempo si è fermato, per lui ha continuato a scorrere, e in quel flusso è entrata un’altra persona.
— Ho già trovato un appartamento — dice lui dopo una pausa. — Non lontano dal tuo. Il quartiere è tranquillo, ottimo per…
Non finisce la frase, ma Rita capisce: «Per i bambini». Avevano sempre sognato due figli: Artem’ e Sofia. Ora lui progetta un futuro con un’altra.
La porta della stanza si apre e si sente la voce dell’infermiera:
— L’orario delle visite è terminato, scusate.
— Certo, andiamo subito — risponde Maxim. — A domani, Rita. Ti amo.
«Ama?» pensa Rita — «Come si può parlare d’amore mentre si sogna una nuova famiglia con un’altra?» La rabbia rinasce, poi si spegne. Sente i passi allontanarsi e il click della porta chiusa. Di nuovo è sola, prigioniera del silenzio e del bip costante del monitor.
A un tratto cade di nuovo nell’oscurità. Quando riapre gli occhi, la luce del sole filtra attraverso le persiane. Mattina? Pomeriggio? Dentro la stanza qualcuno si muove, producendo un familiare fruscio.
— Buongiorno, signora Rita Andrejevna! — esclama allegramente l’infermiera. — Oggi è una splendida giornata, la primavera è davvero arrivata. Sotto le finestre il lillà è già in fiore!
L’infermiera si occupa della flebo canticchiando. Rita raccoglie tutte le forze per dare un segnale. Un dito trema impercettibilmente.
— Oh! — esclama la donna, scorgendo il movimento. — Ci sente?
Rita concentra l’attenzione e sbatte le palpebre una volta. Sì.
— Dottore! Subito qui! La paziente è cosciente!
Le ore successive scorrono in un turbine. I medici corrono da tutte le parti, fanno domande, controllano reazioni, le puntano una luce negli occhi.
— È sorprendente — commenta un giovane dottore con la barba curata — dopo sei mesi di coma… è un caso rarissimo. Cominceremo la riabilitazione.
Rita afferra ogni parola: trauma cranico, fratture multiple, emorragie interne. L’hanno letteralmente riassemblata pezzo per pezzo.
— Avvisate il marito, lo faccia venire subito — ordina il dottor Sokolov.
Maxim arriva in un’ora. I suoi passi si sentono da lontano. Entra di corsa, disordinato, gli occhi rossi, occhiaie profonde.
— Rita… — sussurra, avvicinandosi al letto — Dio, sei sveglia…
Con estrema delicatezza, quasi temendo di romperla, prende la sua mano. Il volto è provato, ma negli occhi brillano lacrime di gioia.
— Mi senti? Per favore, rispondimi…
Rita sbatte le palpebre una volta. Sì.
Il suo viso si illumina di speranza. Le lacrime le rigano le guance.
— Rita… pensavo di averti perso per sempre…
Si appoggia col capo alla sua mano, piangendo senza pudore. Rita percepisce un tenue riscaldarsi dentro: lui ha davvero sofferto. Ma quelle parole udite prima continuano a rimbombarle in testa.
Quando Maxim si calma, comincia a raccontare in fretta, saltando da un argomento all’altro: di quando veniva ogni giorno, di quando le sussurrava parole di speranza, di quando pregava, pur non essendo religioso. Di come i medici dapprima avessero incoraggiato, poi scosso la testa.
Rita ascolta e sbatte le palpebre ancora una volta. Sì. Ha sentito tutto.
Ma non una parola su Anja. Nessun accenno al nuovo appartamento o ai suoi progetti. Nemmeno un sussurro.
Il dottor Sokolov rientra in stanza, leggendo le annotazioni sulla cartella clinica.
— Ottime notizie — annuncia — la riabilitazione sarà lunga, ma i progressi ci sono. Rita Andrejevna, mi sente?
Lei sbatte le palpebre una volta: sì.
— Bene. Ora le farò qualche domanda. Una palpebra: «sì». Due: «no». Ricorda cosa è successo?
Rita sbatte le palpebre due volte. Ricorda solo brandelli.
— È normale — spiega il medico — dopo un trauma cranico l’amnesia è frequente. I ricordi possono tornare col tempo, oppure no. L’importante è che il cervello risponda: è un segnale incoraggiante.
Rivolto a Maxim:
— Non esageri con lei. Ha bisogno di riposo. E informi i familiari: ha ottime possibilità di recupero.
— Ho già chiamato i suoi — risponde lui — stanno arrivando da Nizhnij.
Il medico esce. Maxim riprende la mano di Rita.
— Andrà tutto bene. Ce la faremo. Insieme.
«Insieme?» pensa Rita. Può solo stare a guardare. Anja. Casa. I figli. Lui ci aveva già pensato, ieri. Lei ha ascoltato tutto.
— Devo fare un paio di telefonate — dice lui — un attimo, resto qui.
La porta resta socchiusa. Rita tende l’orecchio.
— Anja? Ciao… Ho novità… Sì, si è svegliata stamattina… No, non parla ancora, ma i medici sono ottimisti… No, Anja, non posso… Non ora… Per favore, capiscimi…
Ogni parola gela il sangue. È tutto vero. Anja non era solo un supporto: tra loro c’era qualcosa di più.
Maxim torna con un sorriso teso.
— Ok, ora resto qui tutta la giornata.
Nei suoi occhi si legge confusione, paura, forse senso di colpa. Inizia a parlare di tempo, dell’estate alle porte, degli amici felici per il suo risveglio. Ma sono parole vuote, come se avesse timore di affrontare davvero l’argomento.
La giornata si trascina lenta: visite mediche, test, terapie. Rita sente il controllo sul suo corpo tornare a poco a poco: prima le dita, poi le mani, infine le gambe. La sera riesce appena a girare la testa. Ogni movimento è difficile, ma ogni piccola conquista è un trionfo.
Maxim resta accanto a lei, salvo brevi pause in corridoio al telefono. Ogni volta Rita non sente le parole, ma legge sul suo volto ansia e rimorso.
Arriva la notte e Rita crolla, il corpo richiede riposo.
— Riposa — le sussurra Maxim, vedendo le sue palpebre abbassarsi — io sono qui. Ti aspetto domani.
Lei chiude gli occhi, sprofondando nel silenzio.
Al mattino ritrova energie nuove: la mente è più lucida, i movimenti meno ardui. Riesce a muovere braccia e gambe e, dopo uno sforzo enorme, riesce a mormorare le prime parole.
Maxim, addormentato sulla poltrona, sobbalza quando la sente:
— Hai parlato?! Davvero?
— Acqua… — bisbiglia lei.
Lui si desta di colpo, versa dell’acqua in un bicchiere e glielo porta alle labbra. Rita beve alcuni sorsi: un gesto banale che ora è un piccolo trionfo.
— Chiamo il dottore! — esulta lui, ma Rita scuote lievemente il capo.
— Aspetta… — voce roca, ma decisa — Chi… Anja?
Il volto di Maxim s’imbianca, le mani tremano.
— Cosa hai detto? Come fai a saperlo?
— Ti ho sentito. Ieri… e prima ancora.
— Mi hai sentito tutto? — chiede lui, con voce carica di dolore. — Per tutto questo tempo?
— Non tutto — spiega Rita — solo dei frammenti. Ma sono abbastanza.
Un silenzio pesante cala nella stanza. Fuori gli uccellini cinguettano e nei corridoi tintinnano i vassoi: nel cuore di Rita il mondo crolla.
— Non sapevo che potessi sentire — sussurra lui — se lo avessi saputo… mai avrei fatto una cosa del genere.
— Raccontami tutto — chiede lei — senza nascondere niente.
Maxim inspira a fondo.
— Dopo l’incidente eri in condizioni disperate. I medici non davano speranze. Passai un mese intero restando al tuo fianco. Poi ricominciai a tornare a casa. Anja mi aiutava: col lavoro, col cibo, con la testa. Era lì quando non ce la facevo più.
— E avete iniziato a frequentarvi? — incalza Rita.
— È successo da solo. Non volevo… Non sapevo più cosa fare. Mese dopo mese, nessun cambiamento, nessuna speranza. Mi sentivo perduto.
— Ma non me — le ricorda lei — tu costruivi una nuova vita. Senza di me.
— Credevo di averti persa per sempre — confessa lui, con voce rotta — non sapevo come vivere. Anja fu la mia ancora.
— E adesso non sai chi ami di più.
Maxim abbassa lo sguardo.
— Ti amo, Rita. Ti ho sempre amata. Ma questi mesi hanno cambiato molte cose. Io… sono confuso.
La sua onestà ferisce, ma Rita capisce che sta dicendo il vero. Sei mesi bastano a stravolgere ogni cosa.
— Ho bisogno di tempo — dichiara lei — e so che anche tu lo hai bisogno.
— Verrò ogni giorno. Ti aiuterò con la riabilitazione, ti leggerò libri, ti parlerò del mondo. Piano piano ne usciremo — promette lui.
Rita annuisce. Non ha più energie per parole lunghe. Ora conta soltanto tornare alla vita. Poi, in seguito, si deciderà il da farsi: cosa e chi farà parte del suo futuro.
Le settimane si susseguono in un lungo percorso di crescita: il primo sorso indipendente, i primi passi con il deambulatore, le prime frasi compiute. Il suo corpo, provato dal coma, si risveglia lentamente; anche la mente recupera, a piccoli passi. I ricordi dell’incidente restano sfocati, come foto inzuppate d’acqua.
Ma Rita non forza i tempi. Sa che l’importante non è il passato, ma il domani. E per questo decide di ricominciare da zero: con se stessa e, forse, anche con Maxim. Forse, in questa nuova realtà, potranno trovare spazio l’uno per l’altra ancora.
Un giorno, mentre si preparano alla dimissione, nella stanza entra una donna: alta, bionda, sguardo freddo. È Anja.
Per un lungo istante si studiano a vicenda. Rita aveva immaginato mille volte questo incontro, ma ora le parole sembrano svanite.
— Ciao — rompe il silenzio Anja con voce tremante — volevo assicurarmi che stai bene.
— Perché? — chiede Rita, con tono calmo ma gelido.
Anja varca la soglia, chiudendo la porta alle spalle.
— So quasi tutto di te — prosegue — Maxim mi parlava soltanto di te: di come vi siete conosciuti all’università, che ami il succo d’arancia al mattino e non sopporti la sveglia, di come ridi alle sit-com e piangi per le pubblicità con gli animali…
Si ferma un attimo, raccogliendo il coraggio.
— Non volevo separarvi. È andata così. Lui era solo, disperato… e io…
— Innamorata — finisce per lei Rita.
— Sì — annuisce Anja — e allora ho capito di non poter essere io. Lui ti ama. Non come me. C’è stata passione e riconoscenza, non amore vero. Perciò me ne vado. Via dalla sua vita. Dalla vostra vita.
Rita la osserva. Non una rivale, ma una persona che ha sofferto a modo suo.
— Avresti potuto essere la mia nemica — le dice — invece mi restituisci mio marito.
— Ho deciso così — risponde Anja con dolcezza — voglio darvi una chance di ritrovarvi.
Quando Anja se ne va, Rita rimane a fissare la porta chiusa: un sollievo sorprendente. Ora non resta che scegliere.
La sera stessa Maxim arriva con un mazzo di gigli — i suoi fiori preferiti.
— Anja è stata qui — dice Rita, seduta accanto a lui.
Maxim sussulta.
— Cosa? Non lo sapevo… Che voleva?
— Ha detto che se ne va. Dalla tua vita. Dalla nostra vita.
Lui abbassa lo sguardo, accarezzando un vecchio orologio — abitudine nata dopo l’incidente.
— Sì, abbiamo parlato. Le ho detto che voglio noi di nuovo. Te.
Rita lo studia, cercando sincerità.
— È davvero ciò che vuoi? Per sempre?
— Sì — risponde lui, con gli occhi pieni di desiderio — non sarà facile, ma voglio provarci. Se anche tu lo desideri.
Rita inspira a fondo. Il futuro è incerto, ma una cosa è chiara: vuole lottare per la sua vita e per ciò che resta del loro amore.
— Anch’io lo voglio — dice, porgendogli la mano.
Maxim la stringe con delicatezza, baciandole il dorso: un gesto di rinascita.
Una settimana dopo, Rita lascia l’ospedale. Davanti a sé ha l’edificio che è stato casa per mesi. Provo emozioni contrastanti: gioia, paura, incertezza. Il mondo fuori sembra enorme.
— Pronta? — chiede Maxim sostenendola.
Lei annuisce, afferrando il bastone. Ogni passo è uno sforzo, ma crede nei medici: un giorno tornerà a correre.
Il taxi attende, con un autista gentile che aiuta Maxim a farla salire.
— A casa? — domanda l’autista.
Rita riflette: «Casa». Una parola che ora suona straniera.
— Sì, a casa — decide infine, scacciando ricordi di notti trascorse lontana.
Il viaggio è breve, ma il cuore batte forte. Casa è sempre lì, ma lei è tornata diversa. E sa che nulla sarà più come prima.
Maxim l’aiuta a salire sul portico. La chiave gira nella serratura e la porta si apre. Dentro tutto sembra uguale: carta da parati, mobili, foto alle pareti. Ma piccoli dettagli tradiscono il cambiamento: un nuovo vaso, libri disposti diversamente, gli abiti di Maxim spariti dalla camera.
— Ho preparato la tua stanza al piano di sopra — spiega lui — se vuoi posso portarti tutto giù, così eviti le scale.
«La tua stanza», non «la nostra». Rita annuisce.
— Ce la faccio — risponde — ho bisogno d’impegno.
Salire le scale è faticoso. Il sudore le imperla la fronte, le gambe tremano. Ma non si ferma: vuole dimostrare a se stessa di potercela fare.
Entrata nella camera, trova un ordine quasi ossessivo: tutto al proprio posto, come se nessuno ci vivesse da tempo. O vivesse con estrema cautela, per non lasciare tracce.
— Ho cambiato le lenzuola e arieggiato la stanza — le dice Maxim in disparte — se ti serve qualcosa io sono giù.
Rita annuisce stanca. Quando lui esce, le torna in mente uno dei primi pianti di sollievo: il senso di aver perso non solo sei mesi, ma forse anche il proprio posto in questa casa.
Verso sera, si sveglia assetata. Sul comodino trova un vassoio con cena e un biglietto:
«Non volevo svegliarti. Se hai bisogno — io sono in studio. M.»
Il suo stomaco brontola: il passato Maxim non sapeva cucinare, ora è diventato bravo. Un’altra piccola novità a cui abituarsi.
Più tardi, guardandosi allo specchio in bagno, vede un volto estraneo: dimagrita, con cerchi scuri sotto gli occhi e capelli rasati dopo l’operazione. Sussurra:
— Dovrò imparare a vivere di nuovo. Anche con questo mio corpo.
I giorni si trasformano in routine: esercizi, riposo, medicine, conversazioni brevi ma educate con Maxim, che la cura con attenzione ma anche con cautela. In casa, la riconciliazione avanza lentamente.
Il decimo giorno dopo il rientro, Rita decide di andare in giardino. È il suo rifugio: rose e lavanda, un angolo di pace. Maxim la accompagna alla panchina di legno poi si ritira.
— Ti ho fatta trovare così come ti piace — dice lui con un sorriso timido — ma non sono un grande giardiniere, lo sai.
Seduti fianco a fianco con due tazze di tè, osservano il sole filtrare tra le foglie.
— Strano — rompe il silenzio Rita — tutto mi sembra familiare ma anche estraneo.
Maxim annuisce comprensivo.
— La parte più dura non è la riabilitazione né il dolore — mormora lei — ma la sensazione di essermi svegliata in un mondo che sembra mio ma non lo è.
— Troverai il tuo posto — le assicura lui — ci vuole solo tempo. Per entrambi.
Per la prima volta dopo mesi, Rita lo guarda davvero. Nota nuove rughe attorno agli occhi, un filo argentato tra i capelli. Anche lui è cambiato.
— Vorrei chiederti una cosa — dice lei d’un tratto — non devi dormire nella stanza degli ospiti. Potremmo provare a stare di nuovo insieme. Un passo alla volta.
Maxim esita, poi sorride con emozione.
— Sei sicura? Non vorrei forzarti.
— Non intendo forzare nulla — chiarisce Rita — soltanto un piccolo passo: dormire vicini, come prima.
Lui annuisce, la speranza nei suoi occhi è tangibile. Quella notte dormono insieme, quasi senza toccarsi. Ma la vicinanza è già un conforto.
Il mattino seguente si risvegliano con le mani intrecciate. È un piccolo miracolo.
Con l’arrivo dell’estate, la sua forza cresce: ora cammina senza bastone, anche se stanca dopo pochi passi. Ritorna alle faccende domestiche e si dedica al giardino, terapia per l’anima.
Maxim lavora da casa per starle accanto. Spesso lei lo sorprende a osservarla con un velo di tristezza: pensa al passato, a ciò che non è più.
Anja non si fa più vedere, ma arriva una cartolina — anonima — con un semplice augurio di pronta guarigione. Rita comprende che è il suo gesto finale: un saluto gentile.
La loro intimità si ricostruisce piano: prima tocchi timidi, poi abbracci, infine baci. Ogni gesto ricorda i giorni della giovinezza, pieni di freschezza e meraviglia.
Una sera, sotto la luce della luna, Maxim la guarda e le sussurra:
— Sei bellissima.
Il corpo di Rita porta ancora cicatrici, ma nei suoi occhi legge la verità: l’ama per la donna che è ora, sopravvissuta e vera.
Con l’arrivo dell’autunno iniziano a fare brevi passeggiate. Un pomeriggio si fermano in un parco, vicino a uno stagno. Rita dice:
— Voglio andare lì — indica un incrocio — il luogo dell’incidente.
Maxim la guarda preoccupato.
— Non serve — obietta — non ti farà bene tornare lì.
— Devo — ribatte lei con fermezza — per chiudere quella pagina e andare avanti.
Dopo un lungo silenzio, lui acconsente. Il giorno dopo prendono un taxi, perché Maxim non si sente ancora di guidare. All’incrocio non c’è nulla: un semaforo, qualche passante distratto, l’asfalto lucido. Nessun segno di tragedia.
— Qui — dice Maxim, stringendole la mano — eri tu che attraversavi. L’uomo era ubriaco e non si è fermato col rosso.
Rita chiude gli occhi. Il vuoto in testa è ancora presente, ma il terrore non ritorna.
— Se fossi stata con me? — domanda piano — avresti potuto salvarmi?
— Forse — risponde lui, con voce tremante — o forse ci saremmo persi entrambi.
— Non possiamo cambiare il passato — riflette Rita — possiamo solo accettarlo e vivere.
Inaspettatamente prova un senso di pace. Non felicità né oblio, ma accettazione.
— Torniamo a casa — decide — ci aspetta ancora tanto da fare.
Durante il viaggio di ritorno pensa alle parole dell’infermiera: «La vita normale non tornerà». Forse è vero. Ma il vero miracolo non sta nell’imperfezione, ma nella capacità di amare nonostante le cicatrici, di vivere nonostante la perdita, di sperare nonostante il tradimento.
Quando il taxi si ferma davanti alla loro abitazione, Rita guarda Maxim. Lui la stringe per mano, e in quell’abbraccio trova quella piccola, tenue speranza che li legherà, spera, a un futuro nuovo.