Katja arrivò nella capitale con una sola valigia in mano e un grande sogno nel cuore. Alle sue spalle era rimasta una cittadina di provincia, dove ogni giorno somigliava all’altro, dove tutti si conoscevano sin dall’infanzia e il futuro pareva un giro chiuso. Ma lei non era disposta ad accettare una vita del genere. Il suo obiettivo era chiaro: diventare avvocato. Non per prestigio o per un diploma di moda, ma perché desiderava giustizia. Voleva uscire dalla miseria in cui lei e sua madre erano intrappolate da troppo tempo, e quale via migliore se non lo studio?
Aveva pianificato tutto: lunghe notti sui libri, corse mattutine per temprarsi la volontà, disciplina di ferro. Katja era fatta di quelle persone che non mollano mai. O perlomeno cercava di apparirlo.
Eppure la vita aveva deciso altrimenti. I punti per l’ammissione non bastavano. Per un soffio.
— Va tutto bene — si ripeteva davanti allo specchio dopo l’ultimo esame — l’anno prossimo andrà meglio. L’importante è non arrendersi.
Un corso a pagamento? Una cifra irraggiungibile per la ragazza la cui madre tirava avanti a stento, lavorando come infermiera e facendo straordinari in panificio. Katja ricordava la madre che, tolti i guanti di gomma dopo il turno, sospirava piano e diceva:
— Basta che tu venga ammessa… Allora tutta la mia vita avrà un senso.
Katja non si permise di crollare. Non pianse. Era diventata adulta troppo presto, troppo testarda per chiedere aiuto, troppo orgogliosa per imporsi. Sapeva che la madre avrebbe fatto di tutto — venduto cose, contratto un prestito, trovato un altro lavoro — ma lei non poteva permetterlo. Non ne aveva il diritto.
Invece dell’università, un lavoro in un modesto bar vicino alla metro. Un locale piccolo, con l’insegna scrostata e un menu essenziale. Cameriera non era il sogno della vita, certo, ma stava vicino alla stanza in affitto in un palazzo semibuio dagli inquilini chiassosi.
La vita divenne ciclica: sveglia, lavoro, casa, sonno. Non restava energia nemmeno per sognare. Solo a volte, di notte, giaceva al buio a fissare il soffitto e sussurrava:
— Ce la farò. Verrò ammessa. Ne sono sicura.
Poi arrivò quella sera che sembrava come tante. Katja stava dietro al bancone, servendo gli ultimi clienti. A uno dei tavoli due uomini visibilmente ubriachi si erano dati da fare: birra, ancora birra, una terza birra. Inizialmente erano discreti, poi sempre più spavaldi.
— Ehi, bella, vieni qui! — gracchiò una voce. — Che fai lì ferma come un chiodo?
Katja cercò di scansarsi, ma uno dei due si alzò e le sbarrò la strada.
— Ma che faccia tosta! Qui non è un tribunale, eh? — rise soddisfatto della sua battuta.
— Devo andare in cucina — rispose lei con fermezza.
— E dai, siediti da noi. Facciamo due chiacchiere. Non è un peccato, no?
Le afferrò la mano. Non faceva male, ma era troppo invadente. Qualcosa in lei si spezzò. Lei tirò via la mano e fece un passo indietro, gli occhi colmi di paura.
— Per favore… basta — sussurrò.
— Su, non sei più una bambina — fece un altro passo avanti.
— Ehi, ragazzi — intervenne una voce calma ma ferma da dietro. — Forse è ora di andare via, eh?
Katja si voltò e vide all’ingresso un uomo alto, in giacca di pelle, capelli corti e uno sguardo che imponeva rispetto. Non alzò la voce, ma il timbro era autorevole. I due sbirciarono l’un l’altro, esitarono e alla fine si alzarono per andarsene.
Quando la porta si richiuse, Katja tirò un sospiro di sollievo.
— Grazie… — disse con voce tremante.
— Figurati — rispose lui con un sorriso. — Queste dovrebbero star fuori da tutti i locali.
Si avvicinò senza invadere il suo spazio, solo per darle sicurezza.
— Ti accompagno io. Dopo un’esperienza simile non è il caso di restare da sola.
Lei esitò un attimo, poi annuì. Uscirono insieme: l’aria d’estate sapeva di polvere, foglie e asfalto rovente. Lui camminò al suo fianco senza fare domande.
— Mi chiamo Oleg — si presentò per primo.
— Katja — rispose lei.
— Da quanto lavori qui?
— Quasi sei mesi.
— Non deve essere facile.
Lei fece un cenno con la testa.
— Sono venuta per l’ammissione a Giurisprudenza. Non ce l’ho fatta.
Lui comprese e non insistette, cambiando discorso.
— Sono del posto. Ho fatto il militare e poi sono tornato. Mio padre è morto da poco, mia madre mi ha lasciato a dieci anni. Adesso lavoro come meccanico allo S.T.O. vicino al ponte. Lo conosci?
— Ho visto l’insegna — sorrise lei.
In quel momento qualcosa cambiò tra loro: l’aria divenne più morbida. Sorrisi spontanei, senza posa, perché ci si stava bene. Caldo, semplice.
— Hai una bella voce — disse lui.
— E tu hai… occhi fidati — rispose Katja.
— Fidati?
— Sì. Ci si può rifugiare in uno sguardo così.
Lui scoppiò a ridere, un po’ imbarazzato.
— Con quel complimento mi hai steso. Non me l’aspettavo.
Arrivarono in fretta sotto casa sua. Katja si fermò e lo guardò.
— Grazie per avermi accompagnata e per essere intervenuto prima.
— Figurati. Se vuoi posso venirti a trovare un’altra volta, solo per assicurarmi che tu stia bene.
Lei annuì.
— Ne sarei felice.
Il giorno dopo lui si presentò davvero, con delle mele. Niente fiori, niente cerimonie. “Sono più salutari”, disse.
I loro incontri si susseguirono. Dopo una settimana Katja capì che con lui si sentiva al sicuro. Dopo due decise di prendere le sue cose e trasferirsi da lui.
Fu un gesto quasi impulsivo, ma c’era in lui qualcosa che generava fiducia: non parlava molto, ma manteneva sempre le sue promesse. Lei lo percepiva istintivamente.
La convivenza si rivelò sorprendentemente semplice. Oleg era premuroso, pratico e trovava sempre il tempo. Le mattine iniziavano con la colazione, le sere con una tazza di tè. Riparava persino il phon rotto, e per la prima volta Katja si sentì meno sola.
“Con lui posso raggiungere qualsiasi obiettivo”, pensava osservandolo mentre tagliava il pane con cura.
Iniziarono a risparmiare: piccole cifre costanti. Un giorno Katja parlò di nuovo di riprovare l’ammissione. Oleg annuì.
— Andrà tutto bene. Un passo alla volta. Prima il matrimonio.
Il matrimonio… Lo immaginavano come un bagliore lontano ma reale: un abito semplice, due anelli, una torta — un momento caldo, luminoso, autentico, da ricordare con un sorriso negli anni a venire.
Poi però tutto cambiò. Arrivò una lettera. Oleg la prese dalla cassetta delle poste e si pietrificò: busta bianca con nome e data. Una fitta attraversò il suo sguardo.
Katja, appena uscita dalla doccia avvolta nell’asciugamano, vide la sua espressione e capì che qualcosa di grave era accaduto.
— Che cos’è? — chiese.
Lui le porse il foglio in silenzio. Lei lesse e sentì un gelo nel petto, come se qualcuno avesse spento la luce dentro di lei.
Oleg la abbracciò forte.
— Non preoccuparti, piccola… Tornerò presto. Faremo il matrimonio come desideriamo.
— Torna vivo… per favore — sussurrò lei, trattenendo a stento le lacrime.
Lui provò a sorridere, ma nei suoi occhi brillava l’ansia, quella che non si può nascondere, che resta nel profondo dell’anima.
Tre giorni dopo partì. Alla stazione la strinse forte, la baciò sulla tempia e disse:
— Avevi promesso che avresti aspettato.
— Aspetterò — rispose lei con decisione.
Lui annuì, la guardò intensamente come per fissarne ogni tratto, poi salì sull’autobus che partì.
Da quel momento iniziò per Katja il tempo dell’attesa. Ogni giorno sembrava la replica del precedente. Ogni squillo del telefono era un evento che le faceva battere forte il cuore. Viveva col telefono in mano: controllava la rete appena sveglia, lo stringeva al petto prima di addormentarsi, come se potesse tenerla al sicuro.
Poi arrivarono i primi malesseri: nausea al mattino, vertigini, debolezza improvvisa. All’inizio attribuì tutto allo stress, poi alla stanchezza. Andò dal medico: gli esami risultarono normali, ma il dottore, pensieroso, disse:
— Forse sarebbe meglio visitare anche un ginecologo, per escludere qualsiasi cosa.
Katja accettò con distacco, quasi per formalità. Ecografia, gel freddo sul ventre, pareti bianche della stanza.
— Congratulazioni — pronunciò la dottoressa mentre riponeva la sonda — sei incinta di cinque–sei settimane.
Katja si bloccò.
— Cosa? Ma ho preso la pillola…
— Può succedere — scrollò le spalle la donna — stress, dieta, ritmo di vita… influiscono tutti.
Uscì appoggiandosi al muro: il mondo intorno le appariva diverso, come se qualcuno avesse spostato i mobili della sua stanza di sempre. Appoggiò la mano sul ventre e sentì un tepore interno. Vita piccola, fragile, ma reale.
“Ce la farò — pensò — per te, piccolo. Per noi.”
Decise di non dire nulla a Oleg finché non fosse tornato. Aspettava il momento giusto: o lo avrebbe annunciato di persona o con un messaggio, quando fosse stato più opportuno.
Ma il cuore le si stringeva d’ansia. Dov’era? Perché taceva?
Katja pregava, viveva e credeva.
Sette giorni senza una chiamata, senza un messaggio: “Utente irraggiungibile” era diventato un dolore insopportabile. Il primo giorno trovò scuse: esercitazioni, segnale debole, un’operazione. Dopo due giorni iniziò a preoccuparsi. Al terzo andò in panico. Al settimo, sentiva il petto bruciare come se le avessero inchiodato una piastra incandescente tra le costole.
E poi, finalmente, squillò il telefono. In un baleno lo lasciò cadere, poi lo raccolse. Il cuore le batteva in gola, le mani tremavano, lo schermo si faceva sfocato per le lacrime.
Sul display: Oleg.
— Pronto?! — gridò lei, soffocata dal pianto.
— Katjuška… amore mio, mi senti? Scusa… Sto bene. Sono vivo. Tu come stai?
La sua voce, familiare e calda, un po’ stanca, la trapassò fin nel profondo. Lei si lasciò cadere a terra, scalza sul freddo linoleum.
— Oleg… pensavo… ormai… — le parole si strozzavano.
— Lo so, lo so… Scusa, non c’era campo. Controllo tutto io. Sto bene — fece una pausa — e tu, Katjuša? Mi avevi promesso di prenderti cura di te.
Raccattò un filo di coraggio: era il momento.
— Aspettiamo un bambino — sussurrò, e un brivido le attraversò l’anima. Non era paura né dubbio, ma consapevolezza: non era più sola. E non lo sarebbe mai stata.
Seguì un silenzio carico di emozione, poi una risata leggera, gioiosa, quasi incredula.
— Non immagini quanto mi renda felice! Katja… amore mio… È la cosa più bella che abbia sentito in mesi. Sul serio!
— Sei contento? — chiese lei a mezza voce.
— Ma certo! Non dubitarne. Quel bambino è nostro. Figlio o figlia, non importa. L’importante sei tu. Abbi cura di te. Tornerò, promesso. Saremo una famiglia. Andrà tutto bene.
Katja chiuse gli occhi: le lacrime scorrevano leggere.
— Non ho bisogno di matrimonio, abito o anelli… Torna vivo. È tutto ciò di cui ho bisogno.
— Tornerò, Katja. Promesso. E avrò cura anche del nostro piccolo.
Passarono sei mesi: parlavano circa una volta a settimana, sognavano, facevano progetti. Poi un giorno la linea si interruppe. Katja attese sere e notti con il telefono in mano, finché capì che doveva cercare la verità.
Si rivolse all’ufficio reclami militari.
L’aria era impregnata di vecchi documenti, polvere e tempo sospeso. Dietro il bancone una ragazza la indicò col capo verso il corridoio, come sapesse il motivo del suo arrivo. Lì si decidevano i destini.
Il commissario era un uomo anziano, la pelle segnata dagli anni e dalle preoccupazioni. Guardò Katja e comprese subito: stava per sentire qualcosa che avrebbe preferito non sapere.
— Ufficialmente non c’è nulla — cominciò, sfogliando alcuni fogli — ma ci sono indicazioni secondo cui il vostro Oleg potrebbe essere prigioniero.
Il mondo le girò intorno, rischiò di cadere dalla sedia.
— Cosa intende per prigioniero?
— Sono informazioni preliminari… non possiamo confermare, ma ci sono ragioni per crederlo.
Si zittì e, notando il suo pancione, aggiunse con voce più dolce:
— Lei è in stato di gravidanza?
— Sì — annuì lei.
— Allora deve restare calma. Niente ansi
— Perché nessuno me l’ha detto?! Vi ho aspettato, sperato… — la voce le tremava.
— Non possiamo rivelarlo finché non abbiamo certezze. Sua madre è già stata informata.
— Sua madre? — fece lei, sorpresa.
— Sì, è venuta di recente. Ha deciso di interessarsi.
— Capisco — mormorò Katja, alzandosi con fatica. — Grazie.
Il ritorno a casa fu un’incertezza nebbiosa. All’ingresso la aspettava una donna alta, vestita con cura, una borsa costosa al braccio e un’aria di sicurezza pietrificata.
— Lei è Katja? — chiese la sconosciuta.
— Sì. Lei è?
— Tania Stepanovna. Madre di Oleg.
Katja si immobilizzò. Ora capiva chi fosse: colei che Oleg non considerava madre fin da quando lo aveva abbandonato a dieci anni, chiara solo ora nella vita del figlio.
— Cosa vuole?
— Questa casa apparteneva a mia madre. Per testamento doveva andare a Oleg, ma non abbiamo fatto in tempo a registrare il passaggio di proprietà: mia nonna è morta settimana scorsa. Di conseguenza, l’immobile è ora mio. Lei deve andarsene subito.
Katja sbiancò.
— Come reagirebbe Oleg? — domandò, cercando di mantenere la calma.
— Non è più affar suo — rispose lei gelida —. Non tornerà. E lei non è nulla per me: né moglie, né madre di mio nipote. Quanto al bambino — e guardò il pancione — non è argomento valido.
— Non può parlare così! — gridò Katja. — Non merita nemmeno il mio rispetto!
— Domani l’appartamento va sgomberato — concluse Tania Stepanovna — o userò altri mezzi. Ho i contatti giusti. Non pensi che il suo stato la salverà.
Katja si voltò, il cuore in gola, e iniziò a impacchettare le sue cose senza proferir parola. L’unica sistemazione possibile era a casa dell’amica Ol’ga.
— Puoi restare da me un paio di settimane — le aveva proposto subito al telefono Olya.
— Grazie — rispose Katja — poi andrò da mia madre.
La sera, di fronte alla finestra della stanza estranea, Katja guardava il cortile vuoto dove poco prima sognava di passeggiare con una carrozzina.
— Oleg… — sussurrò, premendo la mano sul ventre — ti sto aspettando. Lo senti?
E in quel silenzio le sembrò di avvertire la sua presenza.
La casa di Olya era tranquilla: il fruscio della carta da parati, il cigolio delle assi, l’odore del caffè e della biancheria fresca. Olya le portò due tazze di tè caldo.
— Bevi, ti farà bene — disse con dolcezza —. Non ti sento bene. Che fai adesso?
Katja strinse i pugni, stanca di rispondere a quella domanda.
— Andrò da mia madre — disse infine —. Lì c’è più pace. Anche se piccola, la mia stanza è il mio rifugio. Qui ogni cosa mi ricorda Oleg, e io non so dove sia, né se stia bene.
Olya annuì:
— Allora vai. Hai ragione.
Il treno partì lento. Katja si sistemò accanto al finestrino, le gambe coperte da una coperta, il cuore in gola, il telefono sul grembo come un talismano. Lo controllava ogni pochi minuti.
— Sua madre sa che è in viaggio? — le chiese una passeggera anziana.
— Sì. Mi aspetta con un dolce e un bagno caldo.
Un brivido di presagio le serrò lo stomaco. E la visione si fece cupa.
Alla stazione d’interscambio Katja scese per sgranchirsi. Inspirò l’aria gelida e vide le vetrine illuminate. Pensò ai tempi dell’infanzia, quando comprava con la madre brioche al papavero. La fila era breve e lei si mise in coda, una mano al pancione.
In un attimo la borsa le fu strappata via con un gesto repentino. Gridò:
— Ladri! Ridatemi la borsa!
Qualcuno si lanciò all’inseguimento, ma senza risultato. Katja rimase sola, tremante. Dentro la borsa c’erano documenti, soldi e il biglietto del treno.
— Dio mio… — sussurrò, stringendosi la testa tra le mani.
In commissariato compilò la denuncia con le mani che tremavano. Il poliziotto borbottò:
— Succede spesso. Soprattutto a chi, come lei, è incinta e un po’ incosciente.
Katja tacque. Il treno successivo era fra due giorni, e lei non aveva né soldi né documenti.
Poi il dolore si fece acuto: prima leggero, poi lancinante. Prima contrazione, poi la seconda.
— Aiuto… — gemette aggrappandosi al tavolo — credo siano iniziati i dolori del parto.
I poliziotti chiamarono l’ambulanza. Al pronto soccorso dell’ospedale ginecologico la accolse una dottoressa dallo sguardo freddo.
— Ha i documenti?
— Me li hanno rubati — spiegò Katja —. Sono incinta…
— Senza tessera sanitaria né registrazione? — sbuffò la dottoressa —. Qui non è una stazione. Vuole partorire? Vada fuori, in strada.
Con un gesto la spinse fuori dall’ambulatorio. La porta si chiuse alle sue spalle.
Katja rimase a terra, le ginocchia al petto. Il dolore cresceva ad ogni contrazione, mescolato allo spavento e all’umiliazione.
Il telefono vibrò. Con fatica lo estrasse dalla tasca.
— Pronto?
— Katjuška… sono io.
La sua voce: familiare, incredibilmente reale.
— Oleg?! — ansimò lei, mentre le lacrime scorrevano — sei vivo?
— Vivo — rispose lui —. Ci hanno liberati. Sto tornando. Dove sei? Cosa è successo?
— Oleg… tua madre mi ha cacciata… stavo andando da mia madre… alla stazione mi hanno rubato la borsa… e mi è iniziato il travaglio… e mi hanno cacciata dall’ospedale…
— Cosa?! — ruggì lui —. CHI ti ha mandato via?! Dov’è? Dimmi dove sei, Katja!
Lei balbettò l’indirizzo, il dolore aumentava. Voleva un pezzetto di sicurezza.
— Arriva… per favore…
Poi svenne.
Oleg si precipitò dall’ufficiale:
— Sta partorendo, l’hanno cacciata via, è sola! Aiutatemi, per favore!
L’ufficiale stringeva le labbra, ma alle loro spalle si fece avanti un generale. Aveva ascoltato tutto.
— Vedremo — disse con calma, appoggiandogli una mano sulla spalla —. Adesso è nostra responsabilità.
Chiamò direttamente il ministro della Salute, spiegò nome, città, situazione. Il ministro rispose al secondo squillo:
— Prendo io in mano la faccenda.
In poche ore la segnalazione saliva dal ministero regionale al primario dell’ospedale. Quel direttore, sessantenne, stava leggendo il giornale in pantofole a casa sua. Alla notizia impallidì, ma comprese subito.
— Arrivo.
Quindici minuti dopo entrava in corsia: vide Katja rannicchiata, impietrita.
— È una bambina forte — disse sollevandola —. Adesso vi aiutiamo.
Ignorò la guardia e le proteste del personale. Con voce tonante chiamò l’infermiera di turno:
— Le persone non sono oggetti! Che diavolo stai facendo?!
L’infermiera indietreggiò, sconfitta. Lui non voleva spiegazioni.
Portarono Katja in sala parto, dove regnava il caos: medici, infermieri, comandi a bassa voce. Lei non sentiva più nulla tranne il suo cuore. La paura più grande era: vedrò vivo mio figlio?
Dopo un’operazione rapida, bianchi muri, flebo, silenzio. Lei cadde in un sonno profondo.
Quando riaprì gli occhi, vide una mascherina e un volto amico.
— Dov’è il bambino? — mormorò.
— Tutto a suo tempo — rispose una infermiera dolce.
Poco dopo arrivò il medico:
— È un maschietto, un po’ debole alla nascita ma vivo. È in incubatrice e respira da solo. Il quadro è positivo.
— È vivo? — scoppiò a piangere Katja. — Non ricordo niente…
— Conta che ci sia — disse il medico —. Lei è un’eroina.
Poi buio.
…
Il telefono vibrò ancora. Tra dolore e stanchezza Katja alzò lo sguardo: sul display “Oleg”.
— Oleg… — sussurrò, le lacrime ripresero a scorrere.
— Abbiamo un figlio, Katja! Hai capito? Sta bene! Ce l’abbiamo fatta! Andrà tutto bene!
— Non ho visto niente… non sono riuscita…
— Non importa — la rassicurò lui —. Tu sei la mamma, tu sei l’eroina. Adesso voglio chiederti una cosa… — la voce tremò —. Vuoi sposarmi?
Katja scoppiò a ridere, sollevata.
— Certo! Anche adesso!
— Arrivo tra un mese. Promesso.
Si alzò con cautela, andò alla finestra e la spalancò. Sotto, sul bianco della neve, un’infermiera tremante di freddo aveva disposto rose rosse a formare queste parole:
«GRAZIE PER IL BAMBINO»
Era proprio quell’infermiera che l’aveva cacciata, colma di rimorso. Senza telecamere, senza pubblico, aveva chiesto perdono con un gesto.
La mattina dopo la richiamarono dal primario.
— Comprati le rose, coi tuoi soldi. Poi vai alla sua stanza e scrivi con i fiori quelle parole. Voglio che le veda.
— Non posso portare un semplice mazzo? — osò dire lei.
— Condizioni? Pensavo fossi donna! — la rimproverò il primario —. Stanotte mi ha chiamato Mosca! Di chi è la colpa, eh? Avresti già dovuto essere licenziata!
L’infermiera scese in strada e comprò rose. Mai ne aveva prese tante in vita sua. Con le mani che tremavano compose la scritta sulla neve, pensando alla ragazza ferita e sola che aveva rifiutato.
Non era un semplice perdono, ma un atto di vergogna ed espiazione.
…
Un mese dopo Oleg tornò. Katja lo aspettava con il piccolo Egor tra le braccia. Vivevano a casa di sua madre, Valentina Petrovna, in un tranquillo borgo di provincia. Lì era tutto silenzio e calma: la natura, poche persone, la serenità. La casa era datata ma accogliente, semplice ma loro.
Non ci fu cerimonia nuziale: niente abito bianco, niente festa. Erano solo in tre — marito, moglie e figlio — mentre Egor dormiva nella culla. Si tenevano per mano, guardandosi con un’emozione profonda.
Oleg lavorava all’autofficina locale, Katja aiutava la madre e ogni tanto sfogliava i libri di diritto, sognando l’università serale. Ma per ora non voleva altro: bastava stare insieme a quel bambino.
Avevano affrontato l’inferno e ne erano usciti uniti. Finalmente erano a casa.