«Di nuovo l’aspetto di chi ha passato la notte non a letto, ma in un campo di patate» mormorò Olga con un lieve sorriso, aggiustandosi il berretto medico davanti allo specchio appannato. Il turno serale nel reparto di degenza dell’ospedale distrettuale somigliava sempre a un piccolo spettacolo: le infermiere scambiavano i loro sguardi stanchi con quelli nuove, passandosi i pazienti come un testimone, e nel frattempo raccontandosi le ultime novità.
Seduta accanto a lei, con una gamba accavallata sull’altra, stava Alina. Il suo sguardo vagava per la stanza, fermandosi sulla nuova ausiliaria, Marina, che in silenzio stendeva gli abiti puliti sugli scaffali.
«Guardala,» sussurrò Alina, chinandosi verso Olga. «Capelli raccolti, neanche una goccia di trucco… sembra venuta non a lavorare, ma a sostenere un esame.»
Olga si limitò a scrollare le spalle. «È qui per lavorare, non per brillare di bellezza. A chi serve una principessa?»
Alina sbuffò, continuando a scrutare Marina. «La difendi di nuovo? Dev’essere già vostra amica. Io dico solo che è troppo riservata. Bisogna fare attenzione con chi parla poco.»
«E tu cerchi il pelo nell’uovo sempre troppo facilmente,» rispose Olga con un sorriso. «Forse è ora di smettere.»
Alina fece un broncio, ma nei suoi occhi balenò un’ombra di rimprovero. «Non mi piace. C’è troppo silenzio attorno a lei.»
Marina, come se non li sentisse, continuava a sistemare gli abiti. Fuori iniziavano a calare le tenebre, e il corridoio si riempiva di voci, passi e suoni della vita serale dell’ospedale.
«Stasera c’è il consiglio di reparto per la ragazza in rianimazione,» disse all’improvviso Alina. «Hai sentito? I genitori questa mattina hanno quasi litigato.»
«Nessuna meraviglia,» sospirò Olga. «Chi avrebbe il cuore di reggere una cosa del genere? Tu saresti capace di decidere del destino degli altri?»
Alina fissò il soffitto per un momento, poi rispose: «Non lo so… penso di no. Io stessa ho paura della morte.»
«Io temo soprattutto l’indifferenza,» disse Olga a bassa voce.
A quel punto un grido secco rimbombò nel corridoio: «Ausiliaria! Dov’è l’ausiliaria?!»
Marina si mosse in fretta e uscì, lasciando dietro di sé un tenue profumo di sapone e un’ombra di inquietudine.
«Eccola che va,» disse Alina, annuendo con aria compiaciuta. «Silenziosa, ma comunque evidente.»
«Forse proprio in questo risiede la sua forza,» mormorò Olga, pensierosa.
Un mese e mezzo prima era cominciata la mattina con il suono dell’ambulanza. Marina, allora ancora inesperta, stava alla finestra a osservare la folla riunirsi all’ingresso: qualcuno urlava, qualcun altro piangeva. Al centro due persone: una donna con i capelli arruffati e un uomo che stringeva i pugni finché i nocche non gli diventavano bianche.
«Lisa!» gridava dall’interno della folla un urlo disperato. «Non lei, ti prego…»
Lisa era una studentessa, figlia di genitori benestanti, sempre sorridente e piena di vita, con i lunghi capelli biondi e un taccuino di poesie sempre in tasca. Amava le moto, e il suo ragazzo Nikita era un’anima libera, un pilota che sognava di vincere il trofeo cittadino.
Quel giorno un animale aveva attraversato la strada. Nikita aveva gridato, ma Lisa non aveva fatto in tempo ad evitare la moto. Il veicolo si era ribaltato. La ragazza era stata trasportata in condizioni gravi. I genitori accusavano Nikita: «È stato lui a coinvolgere Lisa!» piangeva il padre. «Se non fosse stato per lui, adesso sarebbe a casa.»
Nikita stava sempre davanti all’ospedale: di notte sedeva su una panchina, di giorno chiedeva almeno di poter vedere Lisa. Talvolta scriveva con il gesso sull’asfalto: “Lisa, resisti”. Il suo volto era diventato parte del paesaggio ospedaliero: cadaverico, esausto, con gli occhi arrossati.
Una sera Marina entrò nella stanza di Lisa. Regnava il silenzio, solo il ritmo costante dei monitor e un lieve odore di farmaci. Stava lavando il pavimento con cura, cercando di non fare rumore, ma ogni tanto lanciava un’occhiata alla ragazza, bella anche in coma.
All’improvviso sentì un sussurro: «Nikita…»
Marina sobbalzò, lasciò cadere il panno. Il cuore le salì in gola. Si fermò, cercò di ascoltare: i valori sui monitor non erano cambiati, tutto sembrava normale.
«È stato un’illusione,» sussurrò fra sé. «Sono solo stanca.»
Terminata la pulizia, uscì di fretta. Nel corridoio si scontrò con Alina. «Guarda dove cammini!» la rimproverò quest’ultima con tono beffardo. Ma quella volta Marina rispose con fermezza: «Forse dovresti essere più attenta tu.»
Alina restò di stucco. Marina la oltrepassò, sentendo che qualcosa dentro di lei stava cambiando: la paura lasciava il posto alla determinazione.
Quella sera l’atmosfera in reparto era carica di tensione: tutti parlavano dell’arrivo del professor Evgenij Parchomenko, ex primario di rianimazione diventato ora direttore di una grande clinica in capitale. Si sperava in un suo parere favorevole per Lisa.
«Credi che potrà aiutarla?» chiese Olga ad Alina. «O è una causa persa?»
«Non so,» sospirò Alina. «Dicono che sia severo, ma giusto. Forse accadrà un miracolo.»
Nel corridoio si aggiravano delegazioni da Mosca, risuonavano i nomi di noti specialisti. L’aria era carica di ansia.
Vera Vsevolodovna, la madre di Lisa, sedeva su una panchina, stringendo un asciugamano stropicciato. Marina le si avvicinò e le porse un bicchiere d’acqua.
«Grazie,» sussurrò la donna. «Posso chiederti di sederti qui accanto?»
Marina annuì e si sedette. Rimasero in silenzio finché Vera non parlò: «Sai, anni fa un medico tolse la vita a mio padre. Era Evgenij Parchomenko, il suo curante. Decise di staccargli i fili. Ero piccola, ma non ho mai perdonato. Anche se so che fece la cosa giusta.»
Vera la guardò con compassione. «A volte il rimorso ti divora. Ma è perché ami. Altrimenti non soffriresti così.»
Marina strinse le mani. «Non riesco a perdonarmi neanche io. Anche se so che non c’era speranza, il cuore non ragiona.»
«L’importante è non perdere la speranza,» sospirò Vera. «A volte è tutto ciò che ci rimane.»
Rimasero ancora in silenzio, condividendo dolore e una flebile speranza. Entrambe sapevano che presto ci sarebbe stato il consiglio di reparto, e temevano il peggio.
Quando Marina uscì, vide Nikita vicino alla finestra: dimagrito, provato, con lo sguardo spento. Vera, passando, disse: «È qui ogni giorno. Non si allontana mai dall’ospedale.»
Marina si voltò di scatto, ricordando il sussurro nella stanza. Il cuore le si strinse. «Ho sentito Lisa pronunciare il suo nome,» disse. «Non era un sogno. Lei lo chiamava. Era cosciente.»
Vera si portò una mano al petto. «Sei certa? Davvero hai sentito?» Marina annuì, stringendo i pugni. «Sì. Ha chiamato Nikita. Non possiamo staccarla.»
«Allora agiamo subito,» dichiarò Vera. «Non perdiamo tempo.»
Marina corse lungo il corridoio come se inseguisse la vita stessa, i pensieri confusi, le gambe vacillanti, ma senza fermarsi.
Alina le sbarrò la strada con un sorriso sprezzante: «Dove corri, ausiliaria? Vuoi salvare il mondo?»
Marina si liberò: «Lasciami passare! È importante!»
Entrò nel salone delle riunioni dove già si trovavano i medici: Boris Aleksandrovič, il professor Parchomenko e altri specialisti. L’atmosfera era densa come nebbia prima di una tempesta.
«Non staccate Lisa!» urlò Marina. «L’ho sentita! Ha dato segni di coscienza!»
Boris Aleksandrovič tossicchiò con scetticismo: «Gli strumenti avrebbero dovuto segnalarlo. Sarebbe solo fantasia.»
Il professor Parchomenko alzò una mano: «Ascoltiamo ciò che ha da dire.»
Con voce tremante ma chiara, Marina raccontò del sussurro, di come Lisa avesse pronunciato il nome dell’amato. I medici si scambiarono sguardi, qualcuno fece cenno di no.
«È impossibile,» borbottò uno. «Gli strumenti non registrano nulla del genere.»
«Forse i sensori erano allentati?» propose Parchomenko. Ma Boris fece un gesto irritato: «Non possiamo basarci sulle parole di un’ausiliaria. Marina, sei licenziata. Alina, accompagnala via.»
Alina colse Marina per il braccio con aria trionfante: «Auguri, ora spazzi il cortile.»
Marina chinò lo sguardo, sentendosi crollare il mondo addosso. «E se mi fossi sbagliata? Mi sono inventata tutto? Ormai non servo più a nessuno…»
Appena fuori, inspirò l’aria fredda e, per la prima volta da molto, si lasciò andare alle lacrime.
Tardi la sera, Marina stava a casa abbracciando la foto di suo padre, le lacrime scivolavano sulle guance. «Papà… non ce l’ho fatta. Perdona me…»
Nel sonno sognò il padre, come quando era bambina: stava sulla soglia e le parlava piano: «Andrà tutto bene, Marishka. Sei più forte di quanto credi.»
Al mattino un bussare insistente la svegliò. Il cuore le balzò in petto. Davanti alla porta c’era il professor Parchomenko. «Posso entrare?» chiese con voce sommessa. Marina annuì, incapace di parlare.
Lui si sedette sul bordo della sedia e si massaggiò le tempie. «Lisa si è risvegliata. Nikita era accanto a lei e ha parlato con lei. Ha aperto gli occhi.»
Marina non poteva credere alle sue orecchie: «Davvero?»
«Sì. Si è scoperto che alcune sonde erano staccate e perciò gli strumenti non avevano rilevato nulla.»
Le lacrime tornarono, ma questa volta di sollievo. Marina si coprì il viso con le mani. «Temevo di aver sbagliato…»
«Non ti sei sbagliata,» le disse Parchomenko con dolcezza. «Hai salvato una vita.»
Fece una pausa e aggiunse: «Il direttore si è scusato. Non sei licenziata. Ti hanno riassunta.»
Marina lo guardò con un sorriso tra le lacrime: «Grazie…»
«Perché ausiliaria?» chiese lui all’improvviso. «Potresti essere medico.»
Marina abbassò lo sguardo: «Sto studiando, sono al terzo anno di medicina. D’estate lavoro qui.»
Parchomenko annuì, ascoltando attentamente. «Volevi dimostrarmi che si può salvare qualcuno, vero?»
Marina ammise: «Ero arrabbiata con lei per papà. Pensavo che salvando almeno una persona mi sarei sentita meglio.»
«Non mi giustifico,» disse il professore. «Ma a volte facciamo ciò che dobbiamo, e resta comunque dolore.»
Marina lo guardò negli occhi: «Voglio provare a perdonare. Forse così riuscirò a perdonare anche me stessa.»
Parchomenko sorrise: «Allora cominciamo dalla cena. Non mangio da solo da tanto.»
Marina rise: «Anch’io.»
E così iniziò per entrambi un nuovo capitolo della vita.
Quella sera Marina corse in casa, provando abiti su abiti: troppo semplici o troppo eleganti. Alla fine scelse un modesto vestito blu. Il professor la aspettò sotto casa, sorridendole: «Sei splendida.»
Nel ristorante suonava del jazz, una luce soffusa accarezzava i volti. Marina rise per la prima volta da lungo tempo, serena.
«Mi pento di avere quasi quarant’anni,» ammise lui. «Ma stasera sono felice.»
«Io credevo che la felicità fosse un mito,» rispose lei.
«Domani sistemerò la tua posizione in ospedale,» promise lui. «Vorrei che lavorassi nella mia clinica.»
In quella serata sembrava che tutto fosse possibile.
Il giorno successivo, all’ingresso dell’ospedale, i colleghi erano radunati. Alina stava da sola, con lo sguardo sfidante. Ma quando Parchomenko aprì la portiera e porse la mano a Marina, tutti tacquero. Olga sorrise approvando. Alina non sapeva dove sbattere gli occhi.
Vera Vsevolodovna e Nikita si avvicinarono a Marina. Vera la abbracciò, le lacrime scendevano calde: «Grazie. Hai salvato mia figlia.»
Parchomenko annunciò la sua proposta: «Ho un posto per te nella mia clinica. Prima tirocinio, poi vedremo.»
Marina annuì, sentendo che il futuro non poteva che essere migliore.
Gli anni passarono. Marina lavorò al fianco di Parchomenko, divennero famiglia e nacque la piccola Varya. Seduta accanto alla culla, accarezzando i morbidi capelli della figlia, pensava:
«La vita ci insegna non solo a prendere decisioni, ma anche a perdonare. Senza perdono non si va avanti. Le parole più importanti sono “perdono” e “grazie”, e chi le pronuncia può cambiare il mondo.»
Fuori splendeva il sole, e per la prima volta dopo tanti anni Marina sentiva che davvero, tutto andava bene.