«È ORA CHE ANDIATE ALLA DISCARICA!» sbraitò verso di me quel moccioso del mio capo. Un minuto dopo era pronto a sprofondare sottoterra per la mia replica!

Ragazze, mie care, un saluto a tutte voi! Vi do il benvenuto di cuore! Voglio condividere con voi una storia — recente, ma così intensa che sembra resterà con me per tutta la vita.

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Una storia di come a volte un singolo gesto, compiuto con calma e sangue freddo, possa risuonare più forte di qualsiasi scandalo o urlo.

E voi, ragazze, non voltatevi dall’altra parte — forse in questa storia riconoscerete qualcuno del vostro ufficio, un capo o un collega. E a volte è utile guardare le cose da lontano, non a livello del suolo, ma dall’alto.

Immaginatevi: fine dicembre. Per la maggior parte delle persone, significa mandarini, profumo di aghi di pino, frenesia pre-festiva. Per noi, contabili, è l’inizio di una vera maratona: il bilancio di fine anno.

Chi c’è già passato almeno una volta, annuirà e dirà: «Sì, lo so. Non servono parole.»

Il nostro reparto sembrava una pista di decollo nell’ora di punta — rumore, brusio, passi frettolosi, montagne di carta. Numeri, verbali, riconciliazioni, scadenze. Il caffè scorreva a fiumi, e si tornava a casa solo quando fuori era già notte, e le strade erano deserte, illuminate soltanto dai lampioni solitari che sembravano salutarci con un cenno.

Io, per dirla tutta, sono qui quasi da trent’anni. Sono arrivata qui fresca di diploma, e ora sono Marina Viktorovna, contabile capo.

Conosco ogni angolo, ogni colonna, ogni virgola di questo sistema. Ricordo quando si lavorava con i calcoli meccanici, e poi arrivarono i computer — enormi, pesanti, come macchine del futuro.

Poi tutto è cambiato. Qualche mese fa è arrivato un nuovo responsabile nel nostro reparto: Kirill Andreevic.

Un ragazzo sui ventotto anni, impeccabile nel suo completo, con il suo bicchierino di caffè “brandizzato” in mano. Parla il linguaggio “moderno”: «KPI», «ottimizzazione», «digitalizzazione», «processi».

Dal primo giorno mi guardava come un pezzo d’antiquariato da sostituire. Con quell’aria saccente e un filo di ironia.

Gli davano particolarmente fastidio le mie cartelle puntualmente ordinate, piene di copie cartacee. Un giorno si avvicinò e, con disprezzo, indicò:

— Marina Viktorovna, cos’è questo? Un museo della contabilità sovietica?

— È già tutto nel cloud! E il vostro calcolatore andrebbe mandato al museo da un pezzo! — risposi io.

Si fece una risata da solo, dandosi pacche sulla spalla per la sua “modernità”.

Ma io, tra l’altro, non sono nata ieri. So che un “cloud” può sparire in un istante. Ma un foglio di carta resta lì, nel cassaforte, inattaccabile, mai bloccato. Ma un giovane ambizioso come lui non poteva capirlo.

E così arrivò il momento più cruciale — la chiusura del bilancio di fine anno. Ero al terzo giorno consecutivo a lavorare fino a tardi. Gli occhi mi si chiudevano sotto il peso di piombo, la testa ronzava come un trasformatore. Rivedevo la voce di bilancio — la parte più importante. Un errore in una cifra e via: multe, discussioni, rabbia del direttore che non tollera sbavature.

Nel mio ufficio regnava un silenzio irreale, rotto solo dal ticchettio dei tasti. Tutti erano tesi come corde di violino.

E proprio allora, come in un film, entrò Kirill Andreevic. Fresco, curato, profumato come appena uscito da una spa.

Gettò uno sguardo al mio tavolo sommerso di documenti e, alzando la voce per farsi sentire da tutto l’ufficio:

— Marina Viktorovna, ancora con quelle carte? Non è ora di staccarsi dal passato? Fate spazio a chi è al passo coi tempi, a chi lavora con soluzioni digitali!

Ragazze, nella stanza calò un silenzio tale da poter sentire cadere la polvere. Sentii dentro di me un nodo: ero stata umiliata in pubblico, proprio davanti a chi avevo insegnato, guidato, aiutato a crescere.

Offesa? È un termine troppo debole. Fu come un coltello nella schiena.

Alzai lentamente gli occhi. Lui stava lì, compiaciuto, forse pensando che mi sarei giustificata o arresa.

All’inizio rimasi confusa. Poi — qualcosa scattò. Come se nella mia mente si accendesse una luce fredda e nitida.

L’offesa svanì. Al suo posto, acciaio.

Lo guardai dritto negli occhi e capii: basta sopportare. Basta tacere. Era ora di agire.

Senza proferir parola, con calma e dignità mi alzai. Nessun gesto brusco, nessuno strattone della sedia.

Raccolsi con cura tutte le pagine del bilancio — proprio quel pacco enorme su cui avevo lavorato tre giorni e tre notti, controllando cifra per cifra.

E mi avviai attraverso l’ufficio verso la sua scrivania.

Tutti si immobilizzarono. Si respirava a stento. I loro sguardi mi seguivano come in una scena drammatica.

Silenzio. Tensione. E i miei passi.

Giunta davanti al suo tavolo, con un lieve, quasi teatrale inchino posai la spessa pila di documenti sul suo elegante piano di vetro, dove fino a un attimo prima avevano stazionato solo gadget e una bottiglietta d’acqua filtrata.

Lui rimase sbalordito, guardandomi con aria interrogativa, come se volesse decifrare se fosse una sfida, uno scherzo, o solo stanchezza.

Lo fissai negli occhi e, scandendo bene ogni parola, dissi:

— Ecco, Kirill Andreevic. Il bilancio di fine anno.

Lui zittì, senza muovere un muscolo.

— Lei è il nostro esperto di nuove tecnologie, — continuai, chinando appena la testa — dunque non avrà problemi a…

Feci una pausa, puntando lo sguardo sulla cartella piena di fogli:

— … caricare tutto questo nel suo celebre “cloud”. Così non resterà neppure un granello di polvere su queste vecchie carte.

E, senza dargli il tempo di reagire, aggiunsi a bassa voce, con un filo di ironia:

— Poi potrà inviarlo direttamente al direttore generale. Sono certa che ce la farà.

Non aspettai risposta e, con un gesto teatrale, appoggiai la mano sulla fronte come se un improvviso capogiro mi avesse colto.

— Ebbene, io vado. Oggi non mi sento tanto bene… Forse sarà colpa di questo “cloud” così denso!

E, senza voltarmi, mi avviai verso l’uscita. Passi misurati, tranquilli. Come chi ha appena chiuso un capitolo importante.

Passando vicino alle mie colleghe, colsi nei loro occhi ammirazione, rispetto e un briciolo di adrenalina. Loro mi sgranarono un sorriso e io, con un’occhiata complice, sussurrai:

— Ragazze, buona serata. A domani!

La porta si chiuse alle mie spalle con un leggero clic.

E in quell’ufficio rimase un silenzio talmente denso che pareva si potesse sentire il sudore che imperlava la fronte di Kirill Andreevic. O il fragoroso crollo del suo orgoglio sotto il peso di quella semplice pila di fogli.

Ecco, ragazze. A volte il silenzio non è debolezza, ma la risposta più fragorosa.

Se vi ha emozionate, lasciate un like. Per me è come una coperta calda per l’anima, soprattutto dopo giornate come queste.

E nei commenti raccontatemi: voi come avete messo al loro posto quelli che si credevano “più intelligenti” e “più moderni”? Sono sicura che ognuna di voi ha la sua storia. E credetemi, non vedo l’ora di ascoltarla!

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