L’autunno arrivò in città in punta di piedi, di nascosto, come se avesse paura di disturbare il sonno di qualcuno. Colorò le foglie di cremisi e d’oro, ma presto si stancò della propria bellezza, la lavò via con piogge lunghe e sottili e lasciò sulle strade solo l’odore dell’asfalto bagnato, delle foglie marcite e di una malinconia umida e pungente. Nella classe di Elena Sergeevna Orlova, illuminata dalla fredda luce dei neon, regnavano silenzio e una strana vuotezza, nonostante i venti voci di bambini che si interrompevano a vicenda. Quel vuoto era concreto, quasi tangibile: stava al terzo banco vicino alla finestra. Da una settimana lì nessuno sedeva.
Artem, il suo ragazzo silenzioso, serio oltre la sua età, che studiava con lei fin dal primo anno, saltava le lezioni. All’inizio Elena Sergeevna pensò che si fosse semplicemente raffreddato — il tempo era orribile, ventoso e umido. Ma le sue telefonate alla madre del bambino restavano senza risposta. Prima il telefono taceva del tutto, poi si sentivano solo dei lunghi toni che andavano nel vuoto. Al quarto giorno di silenzio dentro Elena Sergeevna si mosse qualcosa di freddo e pesante, un’inquietudine che non la lasciava dormire la notte e la costringeva a guardare nel vetro appannato della finestra, come se la risposta fosse lì, dietro le gocce che scivolavano.
Capiva che non doveva oltrepassare la linea che separa la scuola dalla vita privata. Ma Artem non era come gli altri. Basso, magrolino, con enormi occhi grigi nei quali nuotava una tristezza adulta, non infantile. Non giocava a rincorrersi durante l’intervallo, non rideva forte, non litigava per i giocattoli. Più spesso se ne stava in disparte, sul davanzale, e teneva in mano con cura, quasi fosse viva, una vecchia macchina fotografica, rovinata dal tempo ma evidentemente amatissima.
— È interessante la tua macchina, Artem, — gli aveva detto una volta Elena Sergeevna, avvicinandosi e cercando di far suonare la voce il più dolcemente possibile. — Sembra molto… affidabile.
Il ragazzo alzò lentamente su di lei lo sguardo, e a lei parve di vedere nel fondo di quegli occhi un intero oceano di lacrime non versate.
— Era di papà. Lui la amava molto. Non se ne separava mai.
— E dov’è adesso il tuo papà? — chiese lei con cautela, già intuendo la risposta.
Artem distolse lo sguardo verso il vetro, lungo il quale scendevano strisce opache.
— Non è più con noi. Se n’è andato là dove c’è sempre luce. — E tornò a tacere, fissando un punto, e Elena Sergeevna sentì stringersi il cuore, come se una mano fredda glielo avesse afferrato nel petto. Dietro quel silenzio, dietro quella compostezza si nascondeva un abisso di dolore che un bambino così piccolo non avrebbe mai dovuto portare da solo.
E così, dopo una settimana di attesa angosciosa, non resistette più. Finite le lezioni, aprì il registro di classe, trovò l’indirizzo annotato all’inizio dell’anno e, senza darsi il tempo di ripensarci o di giustificarsi con la stanchezza, andò a quell’indirizzo, in periferia, dove l’asfalto lasciava il posto a una strada sterrata e sconnessa.
La casa che cercava stava un po’ da parte, come se si vergognasse del proprio aspetto. La vernice scrostata, la staccionata storta, l’erba ingiallita e piegata, come stanca della propria senza-via-d’uscita. Si avvicinò alla porta e suonò. Dentro regnava il silenzio. Suonò ancora, più insistente, e allora sentì un lieve scatto della serratura: la porta si aprì con un cigolio. Sulla soglia c’era Artem. Era pallido, con occhiaie scure sotto gli occhi, e tra le braccia teneva con una cura incredibile per la sua età un piccolo fagotto, dal quale spuntava il visino di una neonata addormentata, avvolta in una coperta usata ma pulita.
— Artem… sei qui da solo? — sussurrò Elena Sergeevna, e la sua voce tremò tradendo tutta la confusione e la paura.
— Da noi va tutto bene, Elena Sergeevna. Ce la facciamo. La nonna ha detto che arriverà presto. Non ci lascerà.
Lei varcò la soglia e fu investita da un odore di chiuso, di cose vecchie e di latte inacidito. In casa faceva freddo, i termosifoni erano appena tiepidi. Sul tavolo della cucina c’erano dei pezzi di pane, sul pavimento qualche sonaglino, e in un angolo un piccolo passeggino a cui mancava una ruota. Il cuore di Elena Sergeevna prese a battere all’impazzata.
— Dimmi, Artem, chi si occupa di voi adesso? — chiese, accovacciandosi davanti a lui per essere alla sua altezza.
Il bambino abbassò la testa, le spalle sottili si incurvarono.
— La mamma… la mamma è andata via. Non tornerà. È andata dove è papà.
— Come sarebbe “è andata”? Dove? — insistette l’insegnante, con dolcezza ma con fermezza, sentendo che il respiro le si spezzava.
— C’è stato un incidente. Un camion grande… E la nonna in quel momento era in ospedale, si è sentita male. E io… io sono rimasto con la Sorellina. Ho promesso alla mamma che mi sarei preso cura di lei.
Gli occhi di Elena Sergeevna si riempirono di bruciore, il mondo le si annebbiò davanti. Un bambino di sette anni. Solo. Con una sorellina in fasce in braccio. Per una settimana. Allungò piano le mani, temendo di spaventarlo, e prese da lui il fagotto caldo. La neonata si mosse nel sonno e sul suo viso passò un’ombra di sorriso.
— Facciamo così: adesso ti aiuto. Prepariamo insieme qualcosa di normale da mangiare, mettiamo un po’ d’ordine, e poi troveremo sicuramente la nonna, va bene? Sistemiamo tutto. Tu non sei solo.
Circa un’ora dopo, quando nel piccolo appartamento si sentiva già odore di tè e di cibo riscaldato, il campanello suonò di nuovo. Sulla soglia c’era una donna anziana, appoggiata a un bastone, il volto stanco e grigio per l’esaurimento, e negli occhi una tale, assoluta, disperazione che a Elena Sergeevna mancò il fiato.
— Lei dev’essere la nonna di Artem? — chiese piano Elena Sergeevna, facendola entrare.
— Sì… Valentina Petrovna. Mio Dio, cosa succede qui… e i bambini… — sussurrò la donna, e dagli occhi le scesero lacrime silenziose. Si coprì il viso con le mani e le spalle le tremarono per un pianto muto.
Più tardi, davanti a una tazza di tè caldo e dolce che Elena Sergeevna le aveva offerto con insistenza, la storia prese forma lentamente, pezzo dopo pezzo, componendo un quadro terribile. La figlia di Valentina Petrovna, la mamma di Artem, era morta tragicamente in un incidente stradale mentre tornava a casa. L’organizzazione del funerale l’aveva presa in carico un’amica, e la stessa Valentina Petrovna quello stesso giorno era finita in ospedale per un problema acuto di salute, perdendo parzialmente la mobilità. Nessuno aveva sospettato che nell’appartamento chiuso fossero rimasti due bambini piccoli — Artem e la sua sorellina appena nata, che si chiamava Mila.
— Mi hanno dimessa solo oggi… sono arrivata a fatica… — disse la donna, guardando il nipote che sedeva accanto a lei in silenzio, abbracciandola per la vita. — E lui… lui tutti questi giorni da solo… la nutriva col biberon che ha trovato, la fasciava come poteva, la cullava… Ha solo sette anni… solo sette…
Elena Sergeevna strinse forte la sua mano fredda, e nei suoi occhi brillò una decisione ferma.
— Non abbia paura. Io e mio marito saremo accanto a voi. Questi bambini adesso sono anche nostri. Non siete soli. Siamo insieme.
Da quel giorno la vita di Artem e della piccola Mila cominciò lentamente ma inesorabilmente a cambiare. La famiglia Orlov — Elena Sergeevna e il marito Dmitrij — divennero per loro un vero sostegno, quel faro che illumina anche la notte più buia. Le serate al tavolo grande, pieno di quaderni e compiti, dopo i quali arrivavano cene buone, cucinate con amore; le lunghe passeggiate al parco, dove Dmitrij insegnava ad Artem a riconoscere le orme degli uccelli sulla terra umida; le gite in campagna, dove il ragazzo vide per la prima volta come crescono le mele e che profumo ha l’erba appena tagliata. Elena Sergeevna lo aiutava con i compiti e con la cura di Mila, e Dmitrij, un uomo dalle mani grandi e buone, organizzava per loro piccole “spedizioni” nel bosco vicino, gli insegnava come sistemare il fuoco perché desse calore e non fumo, e come arrostire una salsiccia sul bastoncino fino a farla diventare dorata e croccante.
Il giorno del compleanno di Elena Sergeevna, Artem si avvicinò a lei con un piccolo regalo avvolto in carta semplice. Era un album fotografico fatto a mano. Nelle foto, stampate su carta normale ma scattate con enorme amore, loro quattro ridevano, Dmitrij portava Mila sulle spalle, Elena Sergeevna leggeva un libro e Artem li guardava con il suo sguardo serio, ma adesso illuminato da dentro. Nell’ultima foto, in cui erano tutti abbracciati in un bosco autunnale sotto un acero rossiccio, con una calligrafia precisa e impegnata c’era scritto:
«Mia sorella Mila, Elena Sergeevna e io. Lei è come la nostra mamma adesso.»
E allora Elena Sergeevna non riuscì più a trattenersi. Lacrime calde e salate le scivolarono sulle guance, ma erano lacrime non di dolore, bensì di una felicità incredibile, purificante. In quel momento, guardando quelle foto semplici e gli occhi luminosi dei bambini, capì con tutta l’anima: quella visita autunnale nella casetta malandata in periferia non era stata un caso. Era stato il destino.
Passò quasi un anno. Una sera, mentre Dmitrij aggiustava la macchinina rotta di Mila e Elena Sergeevna correggeva i quaderni, Artem si avvicinò a loro, guardò prima Dmitrij, poi Elena Sergeevna e disse piano, ma chiaramente:
— Grazie… mamma… papà…
Non c’era più bisogno di carte ufficiali, di lunghe file negli uffici statali, di firme e di timbri. Nel mondo c’era semplicemente diventata una famiglia in più. Vera, forte, indistruttibile.
Artem crebbe. Divenne fotografo, proprio come suo padre, di cui conservava con cura il vecchio “Zenit”. Le sue foto — vive, piene di luce, di calore e di una tenerezza inspiegabile — più di una volta ottennero premi in varie mostre. Ma il suo lavoro più importante era appeso nel salotto della loro casa comune. Vi era ritratta Elena Sergeevna che teneva in braccio la ridente Mila, e accanto, con la guancia appoggiata alla sua spalla, stava un ragazzo sorridente con la macchina fotografica al collo.
E sotto quella foto c’era una sola, ma la più importante scritta al mondo:
«La mia famiglia. L’inizio.»
Perché il cuore di un bambino, quando si scontra con le difficoltà, a volte si apre al mondo con una tale forza da riuscire a sciogliere anche l’autunno più freddo? Raccontate i vostri pensieri e le vostre storie nei commenti, se vi va.