Ol’ga tornava a casa con una leggerezza che non provava da tempo. Nelle mani un pacco: una bottiglia del suo vino semidolce preferito e del pane ancora caldo acquistato nella panetteria all’angolo. La giornata era stata soleggiata, nonostante il fresco di aprile.
Quattro ore prima, in banca aveva apposto la firma sui documenti. Il mutuo era stato stipulato. La loro casa non era più un sogno, ma l’inizio di un percorso. Quante sere lei e Igor avevano discusso di come avrebbero arredato la cameretta, di che colore avrebbero tinteggiato la cucina…
«Si farà una festa», pensava Ol’ga salendo le scale. Igor avrebbe dovuto arrivare presto: era venerdì, il suo pomeriggio libero.
La porta si aprì con troppa facilità. In corridoio c’erano dei trolley.
— Sei già a casa? — Ol’ga si bloccò, le chiavi ancora in mano. — Dove stai andando?
Igor uscì dalla camera con l’ultima valigia. Il suo sguardo scivolò sul pacco che lei teneva, ma non si alzò.
— Allora, hai firmato? — la sua voce era fredda, distaccata.
— Sì, io… — lei fece un passo avanti, incerta. — Eravamo d’accordo di farlo oggi. Pensavo… di festeggiare.
Lui appoggiò la valigia e la guardò finalmente in faccia.
— Hai intestato il mutuo solo a te? Bene, io sono libero.
Il pacco cadde dalle mani. La bottiglia non si ruppe, rimbalzò appena sul pavimento. Il pane rotolò a terra, ancora caldo e profumato.
— Non capisco… — riuscì a dire lei.
— Vika mi aspetta. Stiamo insieme da sei mesi. Volevo dirtelo da tempo, ma rimandavo sempre la conversazione.
Prese i trolley come se avesse fretta, quasi temesse di cambiare idea.
— Le chiavi le lascio qui. I documenti del divorzio te li invio.
Ol’ga non urlò, non pianse: rimase immobile mentre la porta si chiudeva. Poi si lasciò cadere sul pavimento, accanto alle spighe di pane sparse. Il tempo pareva essersi fermato.
Il telefono vibrò: un messaggio di Igor, «Scusa, è meglio così per tutti».
Il vino restò intatto, il pane si raffreddò. La festa non era mai iniziata.
Indice
Silenzio assordante
Una verità inattesa
La zuppa come salvezza
Piccoli passi in un mondo grande
Un ospite indesiderato sulla soglia
Una casa per l’anima
Una verità inattesa
Tre giorni Ol’ga visse come in trance. Spense subito il telefono: non voleva parlare con nessuno. E poi, a chi avrebbe telefonato? Le sue amiche tutte sistemate, con figli e mariti: le loro voci cariche di pietà l’avrebbero affossata ancora di più. La madre era morta da anni, il padre abitava in un paese lontano. Non poteva raccontargli che il marito l’aveva lasciata.
In casa regnava un silenzio assordante. Non accendeva la televisione — quei discorsi vuoti la infastidivano. Anche la radio era muta. Le tende rimanevano chiuse, come se temesse che la luce del sole rivelasse l’orrore di quanto le fosse accaduto.
Il frigorifero era vuoto, ma lei non sentiva fame. Solo un paio di volte si fece un tè tiepido. Dormiva vestita sul divano del salotto: in camera non riusciva proprio ad entrare. Lì c’erano ancora i suoi vestiti, il suo profumo, le tracce di lui.
Il sonno era frammentato e pesante, privo di sogni. Si svegliava con un dolore sordo alle tempie.
Lunedì il lavoro la chiamò. Rispose con un filo di voce che era malata e prese tre giorni di permesso senza paga. La sua voce rauca fu creduta di buon grado.
La sera restava seduta nella poltrona, fissando un punto sulla parete. I pensieri giravano in tondo: «Mezzo anno insieme? Significa che, quando abbiamo scelto l’appartamento, lui…» non riusciva a terminare la frase.
Talvolta le veniva una voglia irrefrenabile di chiamarlo per chiedere perché. Come aveva fatto? Avevano condiviso quindici anni di vita. Ma il telefono stava spento.
Acqua calda per ore nella vasca: lì piangeva per non udire il suono dei singhiozzi. Le lacrime finivano in fretta, lasciando una vuotezza gelida.
Sul comodino giacevano i documenti del mutuo: un trilocale, il sogno di una famiglia, diventato ora solo un debito ventennale.
«Cosa ho combinato?» era il pensiero più frequente. Ma neanche su questo trovava risposta.
La zuppa come salvezza
Il sabato mattina un campanello segnò la quiete. Ol’ga tremò: non voleva vedere nessuno. Il citofono suonò di nuovo, con insistenza. Davanti al visore, sua figlia Katja, con una valigia da viaggio in mano.
— Mamma, apri! — bussava con i pugni. — So che sei qui.
Non c’era scelta. Ol’ga si sistemò i capelli, si aggiustò la maglietta sgualcita ed aprì.
— Dio mio, mamma! — Katja indietreggiò, sconvolta dal suo aspetto. — Che ti è successo?
Entrò in casa, buttò la valigia a terra e la strinse forte in un abbraccio. Da lei proveniva l’odore della primavera, della giovinezza, della vita — tutto ciò che in quell’appartamento mancava.
— Papà ti ha chiamato? — chiese Ol’ga, distaccandosi.
— Due giorni fa. Mi ha detto che se n’è andato.
In cucina Katja aprì il frigorifero, aggrottò le sopracciglia. Trovò un mobile vuoto e fece bollire l’acqua.
— Ho portato da mangiare, — posò sul tavolo pane, formaggio e frutta. — Mamma, devi mangiare.
Ol’ga si sedette vicino alla finestra, osservando la figlia. Tanto adulta, tanto decisa… quando era cresciuta così in fretta?
— Lui ha detto che ha un’altra, — mormorò Ol’ga. — Da sei mesi.
Le parole della figlia furono uno schiaffo più violento della confessione del marito.
— E tu lo sapevi? — chiese lei, ferita.
— Sì, mamma, — rispose Katja, continuando a tagliare il pane. — Li ho visti al centro commerciale un mese fa. Non mi hanno notata.
Quelle parole ferirono Ol’ga più della rivelazione di Igor.
— E non mi hai detto nulla?
— Mamma, — Katja prese le sue mani. — Sei forte, ma lui non ti amava più. Perché costruire tutto questo? Il mutuo, l’appartamento nuovo… credevi che avrebbe salvato il vostro matrimonio?
Un’ondata di nausea le salì alla gola. Sua stessa figlia, in silenzio, ora la accusava di vivere in un’illusione.
— Sei dalla sua parte? — la voce di Ol’ga si spezzò.
— Non è questione di schierarsi, — sospirò Katja. — Tu meriti di più di qualcuno che non c’è più.
In quel momento Ol’ga sentì crollare l’ultima sua certezza: persino la figlia la vedeva come una donna patetica, aggrappata a un sogno infranto.
Piccoli passi in un mondo grande
Dopo la visita di Katja, qualcosa cambiò dentro Ol’ga. La domenica sera, un altro bussare: stavolta era Nina Petroevna, la vicina di sopra. Piccola, i capelli grigi, le rughe gentili intorno agli occhi, con in mano una pentola fumante.
— Ol’en’ka, ho fatto una zuppa, — disse entrando senza chiedere. — Vieni, mangiala prima che si freddi.
— Grazie, ma non ho fame, — provò a rifiutare.
— Non chiedo permesso, — insistette la vicina, mettendo sul fuoco la pentola. — Dove sono le tue ciotole?
Ol’ga guardò, spaesata, mentre Nina lavorava in cucina. Probabilmente aveva ascoltato Igor uscire con le valigie.
— Mangia, è ancora calda, — posò una ciotola di borsch davanti a lei e si sedette di fronte.
Al primo cucchiaio, Ol’ga realizzò di essere affamata. Il calore della zuppa le diede sollievo.
— Anche mio marito se ne andò, — disse Nina Petroevna. — Venti anni fa. Per la segretaria più giovane. Pensavo di morire.
Ol’ga sollevò gli occhi:
— E poi?
— Poi venne la vita, — sorrise la vicina. — Il primo anno è stato il peggiore. Poi, passata la tempesta, è arrivata la serenità. Quando una persona ti lascia non è la fine: è un nuovo inizio.
— Ora è difficile crederci, — ammise Ol’ga.
— Non devi crederci, — appoggiò la mano sulla sua. — Devi solo sapere che non sei sola. E ricorda: non è la fine.
Sedettero in silenzio. Fuori cominciava a fare buio. Per la prima volta da giorni, Ol’ga avvertì una piccola scintilla di calore nel petto. Non gioia, ma speranza.
— Domani ti preparo una torta di mele, — promise la vicina, alzandosi. — Passo a sera.
Quando la porta si chiuse, Ol’ga rimase a lungo immobile nel corridoio. Poi accese la luce: non cambiò molto, ma lei sapeva che qualcosa dentro era mutato.
Un ospite indesiderato sulla soglia
Sono passati cinque mesi. Una mattina di ottobre luminosa e frizzante. Ol’ga stava ultimando un bilancio per una nuova cliente, un piccolo negozio di fiori. Gli affari andavano bene: clienti soddisfatti e qualche lavoro fisso.
Un campanello la colse di sorpresa: gli studenti che avevano preso in affitto la stanza erano fuori. Sulla soglia c’era Igor, stremato, con una vecchia borsa da viaggio.
— Ciao, — disse esitante. — Posso entrare?
Ol’ga si fece da parte senza un battito in più al cuore. Sembrava un conoscente di lunga data, non l’uomo con cui aveva condiviso quindici anni.
— Sei… cambiato, — osservò lui, entrando in cucina per primo. — Hai perso peso, nuovi tendaggi, bei vasi sul davanzale…
— Sei invecchiato, — rispose lei, misurata. — Entra, vuoi un tè?
Igor prese la tazza e guardò intorno: la cucina era diversa, più accogliente.
— Come stai? — chiese a bassa voce.
— Vivo, — rispose lei, togliendo la polvere dai documenti sul tavolo. — E tu?
Lui abbassò lo sguardo, agitando la tazza.
— Con Vika non ha funzionato… Lei cercava altro.
— Troppo giovane, immagino, — disse Ol’ga senza rancore.
— Forse, — ammise Igor. — Mi sono sbagliato. Inseguivo qualcosa di nuovo e ho perso ciò che era vero. Tra noi c’era autenticità, no? Ho riflettuto molto…
Ol’ga lo osservò come se vedesse uno sconosciuto: la ruga tra le sopracciglia, i capelli brizzolati, le spalle curve. Un tempo lo avrebbe compreso al volo: ora non più.
— Posso tornare? — osò chiedere lui. — Ricominciamo. Ti aiuto con il mutuo.
Ol’ga attraversò la stanza e guardò il proprio riflesso nella finestra: occhi calmi, sereni.
— Tu sei libero, — disse lei. — Ora lo sono anch’io.
Igor chinò il capo, raccolse la borsa e uscì. Non provò né sollievo né amarezza: solo una quiete nuova, come se avesse tolto un peso dalle sue spalle.
Una casa per l’anima
Ol’ga era alla finestra ad ammirare i primi fiocchi di neve di dicembre. Un anno era trascorso da quando aveva firmato il mutuo. Dodici mesi di dolore, ma anche di rinascita.
Dal forno salì un delizioso profumo di torta alla vaniglia: oggi Katja sarebbe venuta con il fidanzato per presentarlo alla madre. La figlia non smetteva di chiamare, quasi temesse che lei non l’avrebbe capito.
— Mamma, ti piacerà Dima, — insisteva al telefono. — Lui è un programmatore serio.
Ol’ga sorrise ripensando a quelle parole. Tra loro era sbocciata un’intimità nuova, matura, senza reticenze.
Gli studenti erano andati via per le vacanze. La casa era di nuovo silenziosa, ma quel silenzio non opprimeva più: era il suo spazio.
Il citofono suonò. Ol’ga indossò il suo morbido accappatoio floreale, un regalo per il compleanno.
— Mamma! — esclamò Katja spalancando la porta. Dietro di lei, un uomo alto con un mazzo di crisantemi bianchi.
— Lui è Dima, — presentò la figlia.
— Piacere, — disse Ol’ga, accettando i fiori. — Proprio in tempo per la torta. Ho appena sfornato.
In cucina regnava l’allegria: Dima parlava del suo lavoro, Katja rideva. Pianificavano un viaggio in Carelia, in un piccolo cottage sul lago.
— Vieni anche tu, mamma? — chiese Katja. — È bellissimo!
Ol’ga rimase a fissare la figlia, emozionata.
— Andrò, — decise con un sorriso. — Non vedo l’ora.
Quando partirono, lei si sedette in poltrona, assorta. Domani nuova clientela, nuovi documenti da preparare. Nel weekend avrebbe aiutato Nina Petroevna con il computer e sperava di visitare una mostra di artisti locali.
Si alzò e guardò lo specchio in corridoio: finalmente vedeva se stessa, una donna che aveva attraversato il dolore senza spezzarsi, che aveva imparato a ricominciare.
In quest’appartamento, con quel peso d’ipoteca che aveva faticato a sostenere, era diventata una vera casa. Non più per due, ma per lei sola: spaziosa, luminosa, piena dei suoi sogni. E già bastava.